31
marzo 2002
Il
discorso dei segni
Non
posso negare il visibile che mi sta di fronte. Non posso negare il creato.
Non
posso non aver avvertito la meraviglia dei fiori, la potenza dei mari, la logica
di un cervello elettronico, le sterminate profondità del cosmo.
Non
posso dire: è un caso.
Il
discorso dei segni mi interroga: non sono posti a caso, sono delle realtà.
Fin
da piccolo mi sono abituato a questa teologia dei segni che giungono a me da
ogni parte, con estetica, armonia, forza, chiarezza indiscussa.
Il
mare è li e lo vedo, il cielo è li e lo ammiro, il caldo è li e lo sento, il
cibo è li e lo gusto.
Non
posso restare indifferente: i segni, la natura, il cosmo sono pagine aperte di
un libro che, mi piaccia o no, devo saper leggere.
E
mentre leggo penso, e il mio pensiero va sempre verso un centro sconosciuto,
invisibile, ovunque presente, straordinariamente interessante: «l'altro» da
me, risposta silenziosa alla mia domanda. E' l'Assoluto.
Dio
poneva segni per parlarci, per spiegare le cose. Anche noi dovevamo fare
altrettanto, sia per non perdere tempo, sia per controllarci nel nostro cammino
e correggerci nelle nostre debolezze.
Sì, porre dei segni che fossero come la spiegazione concreta del nostro pensiero, la testimonianza di ciò che volevamo essere, la catechesi del Vangelo vissuto.