29 settembre 2013

Il dono di sé

 Debbo fare la mia confessione, quella che mi trovò impreparato sotto la grande pietra quando sognai che ero morto e che venivo giudicato da Dio, quella sera in cui faceva freddo e negai una coperta ad un povero vecchio. E questo lo feci per paura di tremare nella notte.

Qualche mese dopo l'episodio della coperta negata, trovai un tenente medico della Legione Straniera che mi disse: «Fratel Carlo, se passate a Tazrouk, andate a trovare gli accampamenti di Uksem: vedrete dei poveri veramente poveri».

Senza pensare che era Iddio che voleva insegnarmi qualcosa di nuovo, alla prima occasione cercai le tende indicatemi dal medico. Giunsi un mattino all'alba e faceva ancora freddo. Mi condussero vicino ad una tenda isolata dove c'era una donna che moriva. Era una schiava negra senza marito ma con un figlio piccolo piccolo. Entrai nella tenda: uno squallore indicibile.

        La povera era stesa su una stuoia di erbe secche, tremava.

Era coperta di uno straccio di cotone blu, il colore caratteristico dei Tuareg, suoi padroni. Era tutto sbrindellato e certo non pote­va scaldarla. Accanto, avvolto in una mezza coperta di lana c'era il bimbo. Anche dinanzi alla morte, questa povera donna aveva preferito tremare lei e scaldare il bambino.

Questa donna povera, non cristiana, obbligata alla prostituzione dai padroni, che non contava un nulla di nulla, che moriva come muoiono i veri poveri del Terzo mondo, aveva realizzato col suo figlio l'amore perfetto, lo aveva amato fino al sacrificio, e con tale semplicità, come se nulla fosse, come cosa di nessuna importanza. Mi sentii arido come la sabbia e umiliato da una sublimità divina, vissuta da quella donna nella semplice natura, che io non avevo saputo vivere nella superiorità della grazia.

Dio era presente sotto quella tenda infinitamente povera e con quella creatura da nessuno valutata e stimata, che aveva compiuto un atto degno dell'amore di Gesù sul Calvario: il dono di sé, gratuitamente, semplicemente.

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