18 settembre 2016

Il figlio prodigo

Un drogato robusto come un toro è finito da noi durante la messa.

Per fortuna eravamo alla fine della Liturgia e lui, che non ne poteva più, è uscito con noi che non ne potevamo più per l'agitazione che la sua presenza inquieta aveva trasmesso all'assemblea in preghiera.

In cucina mi chiese un caffè, fissandomi con due occhi che è difficile dimenticare perché sembravano quelli di un animale braccato da parecchi giorni e giunto alla fine della sua resistenza.

Se ne versò mezza tazza sulla giacca per il tremore e, poi, si rovesciò con un tonfo a terra con delle convulsioni terribili e col vomito alla bocca.

Eravamo in quattro ma non riuscivamo a tenerlo fermo, tanto che andò a picchiare la testa contro lo spigolo della stufa. Nella mia mano c'erano sangue, caffè e bava.

Gli mettemmo un cuscino sotto la testa, coricato così per terra, perché in quell'istante non ci sentivamo di portarlo al primo piano dove ci sono le brandine dei fratelli.

Si appisolò un istante, poi aprì gli occhi pieni di una tristezza infinita e mi chiese un qualunque surrogato di droga.

Aveva resistito tutto il giorno senza droga ed ora non ne poteva più.

Riprese a dimenarsi come un ossesso.

Più tardi venne un medico e gli fece un'iniezione.

Poi vennero quattro infermieri e lo portarono al neuro.

Questa che ho raccontato è la traduzione moderna della parabola antica di Luca: quella del figliol prodigo.

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