19 agosto 2018
Portare gli altri
Quando giunsi a El Abiod Sidi Seik per il noviziato, il mio maestro mi disse, con la calma più perfetta di un uomo che aveva vissuto vent'anni nel deserto: «Il faut faire une coupure, Carlo».
Io capii cosa voleva dire quella frase, e decisi di fare il taglio, anche se doloroso.
Avevo conservato nella mia sacca un grosso quaderno su cui erano segnati gli indirizzi dei vecchi amici: ce n'erano migliaia. Il Signore, nella sua bontà, non m'aveva mai lasciato mancare la gioia dell'amicizia, e su un vero fiume d'amore aveva navigato la barca della mia vita.
Se restava in me una sofferenza nascosta, era certamente quella di non poter — al momento della mia partenza per l'Africa — parlare a ciascuno di loro, spiegare il motivo dell'abbandono.
Ma bisognava fare la famosa coupure, ed io la feci con coraggio e con una grande fiducia in Dío. Presi l'indirizzario, che era per me l'ultimo legame col passato, ed andai a bruciarlo dietro una duna durante una giornata di ritiro. Rivedo ancora i resti anneriti del quaderno trasportati lontano dal vento del Sahara.
Ma bruciare un indirizzo non significa distruggere l'amicizia, né questo mi era chiesto; anzi...
Mai ho amato e pregato tanto per i miei vecchi amici come nella solitudine del deserto. Ne rivedevo í volti, ne sentivo i problemi, le sofferenze acuite della distanza.
Essi erano diventati per me come un gregge che mi sarebbe appartenuto per sempre, e che io dovevo condurre con me ogni giorno alla fonte della preghiera.
Pregare era diventato il mio maggiore impegno, la mia più dura fatica quotidiana e avevo capito, per vocazione, cosa significasse: «portare gli altri» nella nostra preghiera.