Il calice del vino |
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Per
comprendere correttamente il sacramento dell'eucaristia non si prende l'avvio
dal tabernacolo, ma dall'altare, o meglio si prende l'avvio dalla celebrazione
eucaristica in atto. Nel tabernacolo infatti, per ovvi motivi di conservazione,
non soltanto è custodito un unico elemento, il pane (segno sufficientemente
eloquente per esprimere la presenza e l'azione permanente del Risorto in mezzo a
noi fino alla fine dei secoli), ma questo segno rischia di essere considerato
isolato dal suo contesto originario che ne esplicita meglio il messaggio.
L'eucaristia
non si limita a significare una presenza in modo statico, semplicemente come
realtà da contemplare e da adorare. Il Risorto infatti si rende presente
nell'eucaristia per radunare la sua Chiesa, per parlare ad essa, per donarsi ad
essa come cibo e per questo le norme ricordano che «per ben orientare la pietà
verso il santissimo Sacramento dell'Eucaristia e per alimentarla a dovere, è
necessario tenere presente il mistero eucaristico in tutta la sua ampiezza, sia
nella celebrazione della messa che nel culto delle sacre specie conservate dopo
la messa per estendere la grazia del sacrificio» (Premesse al culto eucaristico
n. 4).
SEGNO
DELLA GIOIA E DEL SACRIFICIO
Già
soltanto queste due frasi evidenziano la ricchezza simbolica del calice e del
vino sui quali, non senza ragione, vengono pronunciate le parole
dell'istituzione con una formula più articolata di quella pronunciata sul pane
così da far emergere il fondamentale significalo sacrificale dell'eucaristia:
«Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed
eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate
questo in memoria di me». Parole che affondano le loro radici in quella storia
del popolo d'Israele nel quale Dio ha incarnato e reso visibile il suo messaggio
fino alla sua ultima Parola, il Signore Gesù, il Verbo fatto uomo. Ora il vino
era per il popolo d'Israele segno della prosperità e della vita, segno
dell'amore di Dio, ma soprattutto, nel contesto rituale, era segno delle
promesse messianiche e del loro compimento alla fine dei tempi (cf Am
9,14;Os2,24;Is25,6).
Non
a caso Gesù inizia la sua missione trasformando a Cana l'acqua in vino per
annunziare che sono iniziati i tempi nuovi e che si stanno per realizzare le
promesse di Dio.
Ma
se il vino nel calice è segno della festa messianica, esso è anche segno
dell'amarezza della vita; amarezza che deve essere bevuta fino all'ultima
goccia: «Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» (Gv 18,11).
«Padre, se vuoi, allontana da me questo Calice» (Lc 22,42).
È
in questa ambivalenza del segno che deve essere interpretata la presenza del
calice nella celebrazione della pasqua ebraica come nella celebrazione
dell'eucaristia cristiana, dove si fa memoria di un dono luminoso che passa però
attraverso un esodo faticoso, attraverso la croce: «Ogni volta che bevete di
questo calice, voi annunziate la morte del Signore, finché egli venga» (1 Cor
11,26).
Il
vino e la dimensione sacrificale dell'eucaristia Se la messa, fin dall'epoca in
cui furono scritti gli Atti, viene identificata soprattutto nel gesto conviviale
della frazione del pane (cf At 2,46), è tuttavia nel simbolo del calice che i
Padri della Chiesa fanno soprattutto riferimento per spiegare il significato e
il valore sacrificale dell'eucaristia.
La
comunione sotto le due specie, che si mantenne in occidente per tutti fino al
XII secolo e in alcuni luoghi anche oltre, richiamava continuamente questo
aspetto sacrificale che è il fondamento dell'alleanza. È del resto sintomatico
che contemporaneamente alla scomparsa della comunione al calice per tutti i
fedeli (il che è avvenuto anche per ovvie ragioni pratiche), l'aspetto
sacrificale ha finito per essere tutto concentrato sul segno del pane. Si venne
così ad attenuare il suo originario e primario significato conviviale di
fraterna comunione e condivisione nel Cristo risorto e il segno del pane venne
sempre più considerato come simbolo del corpo di Cristo morto in croce.
Da
qui tutte quelle devozioni medievali che tendono a circondare l'eucaristia di
aspetti sepolcrali e dalle quali sono sorte, ad esempio, le Quarantore in
riferimento al tempo durante il quale si ritiene che il corpo di Gesù sia
rimasto nel sepolcro. Da questa particolare accentuazione sacrificale riferita
al segno del pane nasce anche il malinteso dei "sepolcri" il giovedì
santo; aspetto che oggi è esplicitamente condannato: «II tabernacolo o
custodia non deve avere la forma di sepolcro. Si eviti il termine stesso di
sepolcro; infatti la cappella della reposizione viene allestita non per
rappresentare la sepoltura del Signore, ma per custodire il pane eucaristico per
la comunione che verrà distribuita il venerdì nella passione del Signore» (Congr.
per il Culto Divino, Prep. ecelebr. delle feste pasquali, n. 55).
SEGNO
DELL'ALLEANZA
UN
SOLO CALICE
Nel contesto della riforma conciliare che mira a dare verità ai segni non è pertanto del tutto superfluo usare almeno qualche volta anche il vino rosso. È poi sintomatico che nella consapevolezza dell'importanza dei segni per comunicare con incisività il messaggio, le norme si preoccupano anche dell'unicità del calice: «Per sottolineare la partecipazione all'unico pane e all'unico calice, si abbia cura di preparare, per quanto possibile, un'unica patena e un unico calice" (Messale Romano, Precis. CEI, n. 4). Proprio l'importanza simbolica del calice e la sua dignità sconsigliano il tentativo talvolta messo in atto da qualche artista di unire in un solo oggetto, soprattutto in funzione della comunione sotto le due specie, patena e calice dando così vita ad una strana composizione da far concorrenza ai più moderni ed estrosi strumenti per la cucina! Nella celebrazione liturgica non è alla comodità e all'efficienza che bisogna guardare, ma alla dimensione simbolica. È quindi importante che il segno del calice e del vino emerga chiaramente nella celebrazione dell'eucaristia per poter incidere nelle profondità dell'animo ed essere anche oggetto di una seria e ampia catechesi su quell'alleanza indissolubile che Dio ha sigillato con noi nel sangue di Cristo. Alleanza che noi siamo chiamati a ratificare in qualche modo bevendo a nostra volta il "calice" nell'offerta quotidiana di noi stessi, nell'impegno della carità, affinché il calice del Getsemani diventi anche per noi, come per Cristo, calice traboccante di gioia senza fine (Sai 23,5), nell'attesa che si compia la "beata speranza", la promessa fatta da Cristo nell'ultima cena: «Da ora non berrò più di questo frutto della vita fino al giorno in cui lo berrò di nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt 26,29).