Il Segno delle vesti liturgiche |
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Alcune vesti liturgiche, quelle più comunemente usate nelle nostre celebrazioni domenicale sono spiegate nel loro significato assunto nella storia e accolto oggi nel linguaggio simbolico della liturgia cristiana. I colori propri di questo universo cromatico mediano anche per l'uomo contemporaneo la comunicazione di un Mistero divino rispettoso della legge dell'incarnazione. Per comunicarsi all'uomo Dio assume il linguaggio umano nelle sue più varie espressioni.
La
veste, come tutti gli altri segni e come tutte le circostanze, anche nella
celebrazione liturgica può divenire un elemento che oscura e nasconde anziché
rivelare, come sarebbe invece nella sua primaria finalità.
Pensiamo
ad esempio alla minuscola "pezzuola" che sovente sostituisce la veste
bianca del rito battesimale per i bambini; pensiamo agli abiti sfarzosi che
indossano le fanciulle in occasione della Messa di prima comunione, abiti che
proprio per niente richiamano quella veste battesimale, come dovrebbe essere
nella loro originale finalità. Pensiamo anche a certe vesti liturgiche,
indossate dai vari ministri della celebrazione, che per la loro leziosità e
preziosità oggi, diversamente da un certo contesto del passato, non richiamano
affatto la gloria di Dio, ma soltanto l'umana vanità. Il bello nella liturgia,
come del resto in tutti gli altri aspetti della vita cristiana, coincide con il
vero e con il semplice. La sciatteria come la vanità sono entrambe distruttive
per ogni segno. Sovente il rifiuto di tanti segni liturgici nasce proprio da un
loro uso distorto. Pertanto la soluzione più saggia non sta certo
nell'eliminazione dei segni, ma nel farne piuttosto un uso corrente.
Essere
rivestiti di Cristo
La
saggezza popolare ha coniato il proverbio: "L'abito non fa il monaco".
La veste, ancor meno di altri segni, ha nella liturgia un'importanza molto
relativa. Tant'è che nel corso dei primi quattro secoli della Chiesa non
sembra che i ministri del culto cristiano indossassero vesti speciali durante le
celebrazioni, consapevoli anch'essi, come ogni altro battezzato, che
l'essenziale è essere interiormente rivestiti di Cristo (cf Gai 3,26; Rm
13,14). In questa prassi c'era certamente anche la profonda consapevolezza di
quel comune e nuovo sacerdozio che tutti unisce al corpo di Cristo, unico e vero
sacerdote della nuova alleanza (Eb 4,14) e che di conseguenza non c'era alcun
bisogno di evidenziare più di tanto la diversità dei ruoli. Ma altrettanto
certamente c'era anche un atteggiamento polemico nei confronti dell'antico
sacerdozio che in Israele aveva dato origine a un potere di casta e a una
religiosità che aveva fatto del tempio, dei vari segni cultuali, abito
compreso, altrettanti idoli. Chi non ricorda le violente invettive di Gesù
contro quei farisei che «allargano i loro filatteri e allungano le frange» del
loro abito per essere ammirati dagli uomini (cf Mt23,5)? Ancora nel V secolo
Papa Celestino I (+432) si lamenta con i vescovi della Gallia del Sud perché
alcuni preti avevano cominciato a indossare vanitosamente abiti speciali per
celebrare l'eucaristia e cosi conclude la sua lettera: «Dobbiamo distinguerci
dagli altri per la dottrina, non per il vestito; per la condotta, non per
l'abito; per la purezza della mente, non per l'ornamento esteriore» (PL
50,431).
Segno
della realtà interiore
Pur
nella consapevolezza che l'abito, come tutti i segni esteriori, è assai
secondario nel culto cristiano, è doveroso riconoscere che esso appartiene
tuttavia a quel complesso di importanti segni convenzionali che affondano le
loro radici nei primordi dell'umana società. Tant'è che dal modo di vestire
possiamo sempre in qualche modo individuare il pensiero e lo stile di vita di
una persona. Questo spiega la conformità del vestire nei vari gruppi che si
richiamano ad un'idea politica o ad un particolare settore sociale...
In
breve, l'abito lancia sempre un messaggio ed esprime qualcosa riguardo
l'interiorità, il ruolo, la missione... Non senza ragione l'abito diventa anche
nella Scrittura uno dei simboli più importanti per esprimere appunto
l'interiorità e la missione di una persona. Per questo la Bibbia, dopo la
rottura con Dio, descrive Adamo ed Eva nudi, spogliati cioè della grazia divina
che è l'unico vero abito che protegge le persona e le conferisce dignità. Così
da quella prima immagine della Genesi in tutta quanta la Scrittura la veste
diventa il simbolo della grazia di Dio. Il profeta Ezechiele paragona infatti il
popolo d'Israele privo della grazia divina a una ragazza nuda e abbandonata nel
deserto che viene da Dio lavata, unta con olio, ricoperta con abiti ricamati e
adornata di gioielli (Ez 16).
Non
vediamo forse in questa immagine preannunciata la sequenza dei riti battesimali?
Orbene è proprio la veste battesimale, l'abito nuziale per celebrare le nozze
con Dio, che costituisce la radice simbolica di ogni altra veste liturgica o
rituale, che pertanto diventa fondamentalmente segno della grazia ricevuta e
dell'alleanza sancita per mezzo di Cristo. Cosicché per contrasto vestirsi di
sacco e cospargersi di cenere diventa anche nella Chiesa, come nel mondo
dell'Antico Testamento, segno della consapevolezza del proprio peccato. Così
infatti si vestivano i pubblici penitenti nei primi secoli fino all'Alto
Medioevo prima di ricevere la solenne riconciliazione.
Segno
di una missione
Se
in ogni cultura che è sotto li cielo la veste mira sempre a esprimere in
qualche modo la realtà interiore, essa tende anche a manifestare il ruolo, la
missione che alcuni hanno nei confronti degli altri. Questo è un dato
sociologico, una convenzione sociale, dalla quale nessuno può essere totalmente
esente su questa terra, in situazione di normali rapporti umani. Così anche
nella Bibbia Mosè trasferisce i poteri sacerdotali da Aronne al figlio
Eleazaro, spogliando il primo e rivestendo il secondo con gli stessi abiti del
padre (cf Nm 20,28); allo stesso modo Elia trasferisce il suo ruolo profetico ad
Eliseo ricoprendolo del suo mantello (cf I Re 19,19). Ora, se Gesù certamente
relativizza queste espressioni esteriori, e ci esorta al culto in spirito e
verità, noi che viviamo nel regime dei segni e vediamo le realtà invisibili
come in uno specchio (1 Cor 13,12), anche se non in modo assoluto, abbiamo
bisogno in via ordinaria di questi segni per poter esprimere un culto pienamente
umano, incarnato, capace di significare al massimo ciò che il rito intende
comunicare. E quindi sotto questa luce che dobbiamo considerare le vesti
liturgiche.
Anche
le vesti liturgiche purtroppo, come tutte le altre espressioni umane e come
tutti gli altri segni liturgici, non sono esenti da quella corruzione che
affonda le sue radici nel cuore stesso dell'uomo, come non sono esenti neppure
da tutte quelle deviazioni che sono inevitabilmente legate all'intricato svolgersi
della storia umana. Così anche la veste liturgica può ridursi a segno di
potere e non di servizio per speciale investitura di colui che si è fatto
l'ultimo e il servo di tutti. A questo proposito è importante ricordare la
decisione di Paolo VI di abbandonare l'uso della tiara o triregno (1963), il
copricapo-corona papale che si era imposto soprattutto nel corso del XIV secolo
divenendo in particolare segno del potere temporale.
Ma
oggi le vesti liturgiche rischiano di essere condizionate soprattutto dalla
vanità, nonostante l'invito di Paolo VI a semplificare in particolare i riti e
le insegne pontificali, che riguardano cioè i vescovi (1968). Si tratta di un
rischio molto umano, ma che deve essere comunque combattuto come tutte le
cattive tentazioni. Lo scopo delle vesti liturgiche per i ministri ordinati,
come tutti gli altri abiti rituali per i ministri istituiti e per i laici
(compresi gli abiti per la Messa di prima comunione e per i matrimoni..,) hanno
soprattutto uno scopo simbolico: esprimere una realtà interiore e un servizio
ecclesiale. Non ci dovrebbe essere spazio nella liturgia per l'ostentazione
vanitosa, né nel presbiterio né nella navata. Sia ben chiaro, la semplicità e
la chiarezza del simbolo non sono affatto in contrasto con la bellezza e il
decoro; anzi i due aspetti si fondono magnificamente perché nella liturgia (ma
non solo in essa!) il veramente bello e dignitoso è ciò che è profondamente
vero. Giova ripeterlo con forza! E con questi presupposti biblici, storici,
antropologici e sociologici che, nel contesto della riforma conciliare, dobbiamo
considerare le vesti liturgiche e rituali per comprenderne l'importanza
simbolica e per evitare che da segni rivelatori esse si trasformino in elementi
che ostacolano la comprensione corretta del messaggio di cui la liturgia è
portatrice.