Don
Giuseppe Pedandola - missionario diocesano da quasi trent'anni, prima in
Brasile e poi in Cile - da sei anni sta percorrendo un "cammino" del
tutto singolare: l'evangelizzazione degli indios
ecuadoriani attraverso missionari indios
che mantengano la loro cultura quichua
così antica e così lontana da
quella latino-americana. E' un cammino sognato dal Vescovo di Riobamba (Ecuador)
Mons. Proagno ma interrotto sul nascere a causa della sua prematura scomparsa.
Don Giuseppe, su quel solco, dal 1989 sta percorrendo il cammino con alcuni
giovani e ragazze che ha riunito in due "congregazioni religiose",
costituite unicamente da indios e con
impostazione esclusivamente indigena.
Fra
gli scopi di don Giuseppe è anche quello di evangelizzare gli indios. Questo
perché essi sono numerosi (3 milioni, in Ecuador, su 12 milioni di abitanti);
perché sono disprezzati ed il Vangelo ci dice che bisogna partire dagli ultimi;
perché hanno una grande ricchezza, culturale e tradizionale; perché questa
ricchezza, subdolamente, viene fatta morire, mentre potrebbe essere di grande
vantaggio per l'umanità intera. Gli indios di don Giuseppe sono i Quechua,
ossia i discendenti degli Incas, quelli che si estendevano dal Perù
(rovine del Macchu Picchu) a tutto l'Ecuador.
In
una intervista don Giuseppe diceva: "Ci vorrebbe un nuovo San Tommaso d'Aquino
che avesse le capacità di sintesi del Vangelo con la cultura india, come il
vecchio S. Tommaso aveva unito il vangelo con la cultura greco-latina"...
ma proseguiva "... per il momento tale personaggio non appare
all'orizzonte".
Ad
ogni modo don Giuseppe sulla cultura india ha alcune idee ben radicate e che
ripete con frequenza e con decisione:
1)
- la cultura india è una cultura ricchissima, è un vero tesoro;
2)
- detta cultura è minacciata di morte perché la scuola, la televisione e i
mezzi di comunicazione sono massificanti;
3)
- bisogna cambiare la scuola (per il momento non bisogna frequentare la scuola
di Stato) per salvare la cultura india;
4)
- la cultura india è talmente forte che può essere un bene non solo per
l'Ecuador , ma anche per tutta l'umanità.
Don
Giuseppe è quindi impegnatissimo nel suo lavoro con gli Indios. Con la sua jepp
si sposta continuamente tra la sua comunità maschile e quella femminile,
avvicina parroci, stabilisce missioni (della durata di un mese, sempre più
richieste, dopo un periodo di iniziale diffidenza).
Un
esempio è quello di vita assieme delle ragazze che a turno dirigono la
comunità eseguendo i vari lavori. Non hanno regole scritte, ma si basano sulla
parola. Prendono sempre le decisioni in maniera india, cioè all'unanimità; poi
tutte lavorano con impegno. Il loro lavoro (oltre al mantenimento della casa e
alla cucina) consiste in 2 ore di preghiera al giorno, in una mattinata di
studio e in un pomeriggio di lavoro nei campi (così in parte anche si
mantengono). Così si preparano per la "missione". La preparazione è
lo sforzo di ripensare la parola di Dio nella mentalità india.
La
missione è la visita alle varie comunità indie della zona e la predicazione
del Vangelo in quechua come lingua e come stile. Le ragazze si presentano nelle
case, vanno a lavorare con la famiglia nei campi (e specialmente partecipano al
"minga", cioè al lavoro comune) e la sera parlano di Dio dove trovano
e dove cercano di riunire la gente. Presentano un vangelo semplice, capace di
illuminare la vita della gente. Vanno a due a due (una più esperta
insegna all'altra, come dice il Vangelo): ritornano e raccontano le loro
difficoltà, ma anche i successi conseguiti per la salvezza del loro popolo.