suor Silvia Vecellio

posiziona il mouse sopra l'immagine «La persona non è nelle sue dita, nelle gambe, nel colore della pelle o degli occhi; la persona è tale nei suoi sentimenti, nella sua maniera di essere, di agire, di pensare... La voce che ci spinge ad andare avanti è più importante della salute, della perfezione del corpo e di tutto il denaro di questo mondo. Senza questa voce l'uomo è un gigante nelle tenebre».

Sono nata ad Auronzo il 19 agosto 1931 e, già da piccola, alternavo alle sciate sui pendii innevati e alle scalate sui monti, che fanno da cornice alle Tre Cime di Lavaredo, le visite agli anziani della casa di riposo. A 23 anni partii per Torino, con l'intento di diventare suora missionaria nella congregazione delle salesíane. I primi tempi furono molto duri e fu oltremodo difficile rinunciare a tanti sogni, al paese, alle montagne.

Scoprivo sempre di più che Dio aveva disegni diversi da quelli di cui io fantasticavo e mi faceva intendere che era una cosa dura ribellarsi alla volontà del Suo cuore. Sebbene cercassi più volte di resistergli, fu tutto inutile, Lui si dimostrò sempre il più forte.

Nel 1959 partii per il Brasile e, dopo una breve permanenza a Rio de Janeiro, fui destinata a Campo Grande, nello stato del Mato Grosso, dove esisteva un grande collegio salesiano. Ma quell'ambiente non mi soddisfaceva. Più che all'insegnamento mi sentivo portata all'azione.

Il lebbrosario San Jufian

Nel 1966 scoprii, quasi per caso, il lebbrosario San Julian, situato a 11 chilometri da Campo Grande. Per alcuni anni, nel giorno di libertà, visitai settimanalmente i lebbrosi, che vivevano in condizioni veramente disastrose. A tal proposito riporto quello che scrissero nel 1969 alcuni giovani italiani che visitarono, anche loro per caso, il San Julian.

« ... Ciò che abbiamo visto visitando le piccole casette disadorne umide, prive di tutto, è semplicemente pazzesco. Nell'infermeria non c'è niente, solo qualche forbice e tanta sporcizia. Poi abbiamo visto i malati a letto, buttati in quei giacigli privi di federe e lenzuola. Non hanno garze a sufficienza e sui piedi malati mettono anche dei giornali per assorbire sangue e pus... Il medico governativo li visita da lontano, un altro medico che si occupa di loro ha perduto, per questo, tutti i suoi clienti che aveva in città. I malati meno gravi aiutano gli altri e quattro di essi fanno da infermieri. Alcune volte l'insensibilità delle loro mani fa cadere le siringhe».

Le visite al San Julian crearono anche a me dei problemi, perché i genitori delle allieve del collegio, venuti a conoscenza della cosa, temevano che potessi portare il morbo nell'istituto. Fu così che, alla fine, ottenni il permesso dei superiori di andare a vivere stabilmente con i lebbrosi.

Nel 1970, durante un breve periodo di riposo in Italia, ebbi modo di incontrare quei giovani che avevano visitato il lebbrosario e, assieme a loro, nacque il progetto di ristrutturare il San Julian.

Da allora molte cose sono cambiate. Grazie all'impegno economico di tanti benefattori e al lavoro di numerosi volontari italiani, un po' alla volta, infatti, tutto è stato risistemato e nuove costruzioni si sono affiancate a quelle già esistenti. Oggi abbiamo anche la chiesa, la scuola, una clinica con ambulatorio e sala operatoria, un gabinetto dentistico, un centro di riabilitazione con fisioterapia e ortopedia. ecc.

Per permettere ai ricoverati meno gravi di lavorare e di rendersi utili, è stato avviato un allevamento di mucche da latte, maiali e galline e vengono anche organizzati dei lavori agricoli.

L'assistenza agli emigranti

La città di Campo Grande si trova al centro del Mato Grosso e di lì passa un autentico fiume umano, un esercito di disperati che, cacciati dalla loro terra e privati del lavoro, si mettono in marcia verso San Paolo o verso l'interno dell'Amazzonia in cerca di fortuna.

La vista di tutta questa gente, che sostava anche per giorni nei marciapiedi della città, senza un posto dove riposare e spesso senza cibo e assistenza medica, ha richiamato alla mia mente il ricordo dei tanti nostri emigranti veneti, bellunesi, cadorini, auronzani.

Inizialmente siamo intervenuti distribuendo loro un piatto di minestra calda e in seguito costruendo il CELAMI (Centro d'Appoggio all'Emigrante) che oggi può contare su una grande ed attrezzata struttura disposta su due piani. Nella parte bassa c'è il refettorio, dove ogni sera viene servita la cena a circa 200 persone, mentre la parte superiore è riservata ai dormitori. Agli emigranti di passaggio viene offerto il calore di una accoglienza umana e solidale che si traduce in gesti concreti: cibo, ospitalità, assistenza medica, sociale e legislativa.

Lino Villachà: il poeta lebbroso

Certamente Lino Villachà è stato "il personaggio più famoso" del lebbrosario. Ospìte del San Jiulian fin dall'età di 12 anni, fu un uomo che non si arrese mai alla sventura di essere lebbroso, ma seppe riempire la sua vita di amore.

I suoi numerosi libri di poesie e di riflessioni, le sue lettere, le cronache della vita nel lebbrosario, ma ancor di più la sua vita intessuta di fede, di speranza, di impegno fattivo per gli altri, ne hanno fatto "il simbolo" della lunga lotta degli ammalati di lebbra per vedere riconosciuta la propria dignità di uomini.

La sua vita fu una continua sofferenza. Successive operazioni chirurgiche lo privarono prima dei piedi, poi delle mani, infine di una intera gamba.

Ecco come lo stesso Lino racconta quei momenti.

«La sofferenza fisica è giunta a poco a poco: è stata una tempesta che si è annunciata da lontano, oscurando il cielo e tuonando all'orizzonte... Dava il tempo di raccogliere qualcosa... veniva e andava via, poi ritornava di nuovo, portandomi via molto di più di quello che riuscivo a mettere insieme. La soluzione è stata crescere interiormente. Ho scoperto così che la persona non è nelle sue dita, nelle gambe, nel colore della pelle o degli occhi; la persona è tale nei suoi sentimenti, nella sua maniera di essere, di agire, di pensare: un sole interiore che genera la vita. La voce che ci spinge ad andare avanti è più importante della salute, della perfezione del corpo e di tutto il denaro di questo mondo. Senza questa voce l'uomo è un gigante nelle tenebre».

Credo proprio che la vita di quest'uomo, morto nello scorso mese di luglio, quando ormai era sordo, quasi cieco, privo delle mani e delle gambe, con i reni pietrificati, ma così vivo nello spirito, sia qualcosa da proporre a tutti i giovani, ma soprattutto a quelli che sono scoraggiati, a quelli che si arrendono di fronte alle difficoltà, a quelli che non sanno cosa fare della vita e che la sprecano in cose inutili.

Sono convinta che il testamento spirituale di Lino, scritto poco prima di morire, possa essere per tutti noi "una lezione dì vita".

«.... Se qualcuno vuol ricordarsi di me, che mi senta negli scritti che ho lasciato e nei sentieri del San Julian, nei suoi alberi e nei suoi passeri che ho amato e negli amici che non dimenticherò mai.

Vorrei che il poco che è rimasto dei miei resti umani riposasse sotto un albero del San Julian, magari una palma, ben vicino alle sue radici, affinché possa ricevere da loro il fremito di felicità delle foglie al vento e il profumo del mattino...

 Che la lapide sia una lastra di cemento con solo il nome, la data di nascita con una stella e la partenza con una crocetta. Niente di più. La croce l'ho già vissuta. Adesso è l'ora di rinascere... Che la mia partenza sia in silenzio, come una foglia che cade dopo aver dato tutto di se stessa alla vita. Vorrei vicino solo gli amici più intimi. Che gli altri conservino di me l'immagine di uomo vivo e lottatore. Questo della morte è il momento meno importante, il più è stato vivere. Voglio appena una preghiera con gli amici attorno per sentire, ancora una volta, l'affetto e l'amicizia che sempre mi hanno dimostrato. Spero che ci sia il sole e nel cielo nuvole bianche, con stormi di passeri e che di notte le stelle brillino, cosicché tutti sentano la mia gratitudine per quanto mi hanno donato nella vita».

Abbiamo sepolto Lino sotto gli alberi del San Julian, con attorno tanti amici. Il cielo era azzurro, con nuvole bianche e stormi di passeri, come lui desiderava. Ora abbiamo una infinita saudade (nostalgia) e un amico vero di più in cielo.