Il
lebbrosario San Jufian
Nel
1966 scoprii, quasi per caso, il lebbrosario San Julian, situato a 11 chilometri
da Campo Grande. Per alcuni anni, nel giorno di libertà, visitai
settimanalmente i lebbrosi, che vivevano in condizioni veramente disastrose. A
tal proposito riporto quello che scrissero nel 1969 alcuni giovani italiani che
visitarono, anche loro per caso, il San Julian.
«
... Ciò che abbiamo visto visitando le piccole casette disadorne umide, prive
di tutto, è semplicemente pazzesco. Nell'infermeria non c'è niente, solo
qualche forbice e tanta sporcizia. Poi abbiamo visto i malati a letto, buttati
in quei giacigli privi di federe e lenzuola. Non hanno garze a sufficienza e sui
piedi malati mettono anche dei giornali per assorbire sangue e pus... Il medico
governativo li visita da lontano, un altro medico che si occupa di loro ha
perduto, per questo, tutti i suoi clienti che aveva in città. I malati meno
gravi aiutano gli altri e quattro di essi fanno da infermieri. Alcune volte
l'insensibilità delle loro mani fa cadere le siringhe».
Le
visite al San Julian crearono anche a me dei problemi, perché i genitori delle
allieve del collegio, venuti a conoscenza della cosa, temevano che potessi
portare il morbo nell'istituto. Fu così che, alla fine, ottenni il permesso dei
superiori di andare a vivere stabilmente con i lebbrosi.
Nel
1970, durante un breve periodo di riposo in Italia, ebbi modo di incontrare quei
giovani che avevano visitato il lebbrosario e, assieme a loro, nacque il
progetto di ristrutturare il San Julian.
Da
allora molte cose sono cambiate. Grazie all'impegno economico di tanti
benefattori e al lavoro di numerosi volontari italiani, un po' alla volta,
infatti, tutto è stato risistemato e nuove costruzioni si sono affiancate a
quelle già esistenti. Oggi abbiamo anche la chiesa, la scuola, una clinica con
ambulatorio e sala operatoria, un gabinetto dentistico, un centro di
riabilitazione con fisioterapia e ortopedia. ecc.
Per
permettere ai ricoverati meno gravi di lavorare e di rendersi utili, è stato
avviato un allevamento di mucche da latte, maiali e galline e vengono anche
organizzati dei lavori agricoli.
L'assistenza
agli emigranti
La
città di Campo Grande si trova al centro del Mato Grosso e di lì passa un
autentico fiume umano, un esercito di disperati che, cacciati dalla loro terra e
privati del lavoro, si mettono in marcia verso San Paolo o verso l'interno dell'Amazzonia
in cerca di fortuna.
La
vista di tutta questa gente, che sostava anche per giorni nei marciapiedi della
città, senza un posto dove riposare e spesso senza cibo e assistenza medica, ha
richiamato alla mia mente il ricordo dei tanti nostri emigranti veneti,
bellunesi, cadorini, auronzani.
Inizialmente
siamo intervenuti distribuendo loro un piatto di minestra calda e in seguito
costruendo il CELAMI (Centro d'Appoggio all'Emigrante) che oggi può contare su
una grande ed attrezzata struttura disposta su due piani. Nella parte bassa c'è
il refettorio, dove ogni sera viene servita la cena a circa 200 persone, mentre
la parte superiore è riservata ai dormitori. Agli emigranti di passaggio viene
offerto il calore di una accoglienza umana e solidale che si traduce in gesti
concreti: cibo, ospitalità, assistenza medica, sociale e legislativa.
Lino
Villachà: il poeta lebbroso
Certamente
Lino Villachà è stato "il personaggio più famoso" del lebbrosario.
Ospìte del San Jiulian fin dall'età di 12 anni, fu un uomo che non si arrese
mai alla sventura di essere lebbroso, ma seppe riempire la sua vita di amore.
I
suoi numerosi libri di poesie e di riflessioni, le sue lettere, le cronache
della vita nel lebbrosario, ma ancor di più la sua vita intessuta di fede, di
speranza, di impegno fattivo per gli altri, ne hanno fatto "il
simbolo" della lunga lotta degli ammalati di lebbra per vedere riconosciuta
la propria dignità di uomini.
La
sua vita fu una continua sofferenza. Successive operazioni chirurgiche lo
privarono prima dei piedi, poi delle mani, infine di una intera gamba.
Ecco
come lo stesso Lino racconta quei momenti.
«La
sofferenza fisica è giunta a poco a poco: è stata una tempesta che si è
annunciata da lontano, oscurando il cielo e tuonando all'orizzonte... Dava il
tempo di raccogliere qualcosa... veniva e andava via, poi ritornava di nuovo,
portandomi via molto di più di quello che riuscivo a mettere insieme. La
soluzione è stata crescere interiormente. Ho scoperto così che la persona non
è nelle sue dita, nelle gambe, nel colore della pelle o degli occhi; la persona
è tale nei suoi sentimenti, nella sua maniera di essere, di agire, di pensare:
un sole interiore che genera la vita. La voce che ci spinge ad andare avanti è
più importante della salute, della perfezione del corpo e di tutto il denaro di
questo mondo. Senza questa voce l'uomo è un gigante nelle tenebre».
Credo
proprio che la vita di quest'uomo, morto nello scorso mese di luglio, quando
ormai era sordo, quasi cieco, privo delle mani e delle gambe, con i reni
pietrificati, ma così vivo nello spirito, sia qualcosa da proporre a tutti i giovani,
ma soprattutto a quelli che sono scoraggiati, a quelli che si arrendono di
fronte alle difficoltà, a quelli che non sanno cosa fare della vita e che la
sprecano in cose inutili.
Sono
convinta che il testamento spirituale di Lino, scritto poco prima di morire,
possa essere per tutti noi "una lezione dì vita".
«....
Se qualcuno vuol ricordarsi di me, che mi senta negli scritti che ho lasciato e
nei sentieri del San Julian, nei suoi alberi e nei suoi passeri che ho amato e
negli amici che non dimenticherò mai.
Vorrei
che il poco che è rimasto dei miei resti umani riposasse sotto un albero del
San Julian, magari una palma, ben vicino alle sue radici, affinché possa
ricevere da loro il fremito di felicità delle foglie al vento e il profumo del
mattino...
Che la lapide sia una lastra di cemento con solo il
nome, la data di nascita con una stella e la partenza con una crocetta. Niente
di più. La croce l'ho già vissuta. Adesso è l'ora di rinascere... Che la mia
partenza sia in silenzio, come una foglia che cade dopo aver dato tutto di se
stessa alla vita. Vorrei vicino solo gli amici più intimi. Che gli altri
conservino di me l'immagine di uomo vivo e lottatore. Questo della morte è il
momento meno importante, il più è stato vivere. Voglio appena una preghiera
con gli amici attorno per sentire, ancora una volta, l'affetto e l'amicizia che
sempre mi hanno dimostrato. Spero che ci sia il sole e nel cielo nuvole bianche,
con stormi di passeri e che di notte le stelle brillino, cosicché tutti sentano
la mia gratitudine per quanto mi hanno donato nella vita».
Abbiamo
sepolto Lino sotto gli alberi del San Julian, con attorno tanti amici. Il cielo
era azzurro, con nuvole bianche e stormi di passeri, come lui desiderava. Ora
abbiamo una infinita saudade (nostalgia) e un amico vero di più in
cielo.