|  Ringrazio 
		di cuore il Cardinale Vicario per le delicate parole, con le quali - 
		anche a nome del Consiglio Episcopale, del Capitolo Lateranense, del 
		Clero, dei Religiosi, delle Religiose e dei fedeli - ha voluto esprimere 
		la devozione ed i propositi di fattiva collaborazione nella diocesi di 
		Roma. Prima testimonianza concreta di questa collaborazione vuol essere 
		la somma ingente raccolta tra i fedeli della diocesi e messa a mia 
		disposizione per provvedere di chiesa e di strutture parrocchiali una 
		borgata periferica della Città, ancora priva di questi essenziali 
		sussidi comunitari di vita cristiana. Ringrazio veramente commosso. 
		1. Il maestro delle cerimonie ha scelto le tre letture bibliche 
		per questa solenne liturgia. Le ha giudicate adatte ed io cerco di 
		spiegarvele. La prima lettura (1) può venir riferita a Roma. È noto a tutti che il 
		Papa in tanto acquista autorità su tutta la Chiesa in quanto è vescovo 
		di Roma, successore cioè, in questa città, di Pietro. Ed in grazia 
		specialmente di Pietro, la Gerusalemme di cui parlava Isaia, può essere 
		considerata una figura, un preannuncio di Roma. Anche di Roma, in quanto 
		sede di Pietro, luogo del suo martirio e centro della Chiesa cattolica, 
		si può dire: «sopra di te, risplenderà il Signore e la Sua gloria si 
		manifesterà... i popoli cammineranno alla tua luce» (2). Ricordando i 
		pellegrinaggi degli Anni Santi e quelli che continuano a svolgersi negli 
		anni normali con costante afflusso, si può, col profeta, apostrofare 
		Roma così: «Gira intorno gli occhi e guarda:... figli vengono a te da 
		lontano... si riverserà sopra di te la moltitudine delle genti del mare 
		e le schiere dei popoli verranno a te» (3). è un onore questo per il 
		Vescovo di Roma e per voi tutti. Ma è anche una responsabilità. 
		Troveranno, qui, i pellegrini un modello di vera comunità cristiana? 
		Saremo capaci, noi, con l'aiuto di Dio, vescovo e fedeli, di realizzare 
		qui le parole di Isaia scritte sotto quelle citate prima, e cioè: «non 
		si udrà più parlare di violenza nella tua terra... il tuo sarà un popolo 
		tutto di
		 giusti»? (4) Pochi minuti fa il Prof. Argan, sindaco di Roma, mi ha 
		rivolto un cortese indirizzo di saluto e di augurio. Alcune delle sue 
		parole m'hanno fatto venire in mente una delle preghiere, che fanciullo, 
		recitavo con la mamma. Suonava così: «i peccati, che gridano vendetta al 
		cospetto di Dio sono... opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede 
		agli operai». A sua volta, il parroco mi interrogava alla scuola di 
		catechismo: «I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, perché 
		sono dei più gravi e funesti?». Ed io rispondevo col Catechismo di Pio 
		X: «... perché direttamente contrari al bene dell'umanità e odiosissimi 
		tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio» (5). Roma sarà 
		una vera comunità cristiana, se Dio vi sarà onorato non solo con 
		l'affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta 
		morigeratamente, ma anche con l'amore ai poveri. Questi - diceva il 
		diacono romano Lorenzo - sono i veri tesori della Chiesa; vanno, 
		pertanto, aiutati, da chi può, ad avere e ad essere di più senza venire 
		umiliati ed offesi con ricchezze ostentate, con denaro sperperato in 
		cose futili e non investito - quando possibile - in imprese di comune 
		vantaggio. 2. La seconda lettura (6) adatta ai fedeli di Roma. L'ha 
		scelta, come ho detto, il Maestro delle cerimonie. Confesso che parlando 
		essa di obbedienza, mi mette un po' in imbarazzo. è così difficile, 
		oggi, convincere, quando si mettono a confronto i diritti della persona 
		umana con i diritti dell'autorità e della legge! Nel libro di Giobbe 
		viene descritto un cavallo da battaglia: salta come una cavalletta e 
		sbuffa; scava con lo zoccolo la terra, poi si slancia con ardore; quando 
		la tromba squilla, nitrisce di giubilo; fiuta da lungi la lotta, le 
		grida dei capi e il clamore delle schier (7). Simbolo della libertà. 
		L'autorità, invece, rassomiglia al cavaliere prudente, che monta il 
		cavallo e, ora con la voce soave, ora lavorando saggiamente di speroni, 
		di morso e di frustino, lo stimola, oppure ne modera la corsa impetuosa, 
		lo frena e lo trattiene. Mettere d'accordo cavallo e cavaliere, libertà e autorità, è diventato un problema sociale.  Ed 
		anche di Chiesa. Al Concilio s'è tentato di risolverlo nel quarto 
		capitolo della «Lumen Gentium». Ecco le indicazioni conciliari per il 
		«cavaliere»: «I sacri pastori, sanno benissimo quanto contribuiscano i 
		laici al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da 
		Cristo per assumersi da soli tutta la missione della salvezza che la 
		Chiesa ha ricevuto nei confronti del mondo, ma che il loro magnifico 
		incarico è di pascere i fedeli e di riconoscere i loro servizi e i loro 
		carismi, in modo che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, 
		all'opera comune» (8). Ed ancora: sanno anche, i pastori, che «nelle 
		battaglie decisive è talvolta dal fronte che partono le iniziative più 
		indovinate» (9). Ecco, invece, un'indicazione del Concilio per il 
		«generoso destriero» cioè per i laici: al vescovo «i fedeli devono 
		aderire come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre» (10). 
		Preghiamo che il Signcre aiuti sia il vescovo che i fedeli, sia il 
		cavaliere che i cavalli. M'è stato detto che nella diocesi di Roma sono 
		numerose le persone che si prodigano per i fratelli, numerosi i 
		catechisti; molti anche aspettano un cenno per intervenire e 
		collaborare. Che il Signore ci aiuti tutti a costituire a Roma una 
		comunità cristiana viva e operante. Non per nulla ho citato il capitolo 
		quarto della «Lumen Gentium»: è il capitolo della «comunione 
		ecclesiale». Quanto detto, però, riguarda specialmente i laici. I 
		sacerdoti, i religiosi e le religiose, hanno una posizione particolare, 
		legati come sono o dal voto o dalla promessa di obbedienza. Io ricordo 
		come uno dei punti solenni della mia esistenza il momento in cui, messe 
		le mie mani in quelle del vescovo, ho detto: «Prometto». Da allora mi 
		sono sentito impegnato per tutta la vita e mai ho pensato che si fosse 
		trattato di cerimonia senza importanza. Spero che i sacerdoti di Roma 
		pensino altrettanto. Ad essi ed ai religiosi S. Francesco di Sales 
		ricorderebbe l'esempio di S. Giovanni Battista, che visse nella 
		solitudine, lontano dal Signore, pur desiderando tanto di essergli 
		vicino. Perché? Per obbedienza; «sapeva - scrive il santo - che trovare 
		il Signore all'infuori dell'obbedienza significava perderlo» (11). 3. La terza lettura (12) ricorda al vescovo di Roma i suoi 
		doveri. Il primo è di «ammaestrare», proponendo la parola del Signore 
		con fedeltà sia a Dio sia agli ascoltatori, con umiltà ma con franchezza 
		non timida. Tra i miei santi predecessori vescovi di Roma due sono anche 
		Dottori della Chiesa: S. Leone, il vincitore di Attila, e S. Gregorio 
		Magno. Negli scritti del primo c'è un pensiero teologico altissimo e 
		sfavilla una lingua latina stupendamente architettata; non penso nemmeno 
		di poterlo imitare, neppure da lontano. 
		 Il secondo, nei suoi libri, è «come un padre, che istruisce i propri 
		figlioli e li mette a parte delle sue sollecitudini per la loro eterna 
		salvezza» (13). Vorrei cercare di imitare il secondo, che dedica 
		l'intero libro terzo della sua «Regula Pastoralis» al tema «qualiter 
		doceat», come cioè il pastore debba insegnare. Per quaranta interi 
		capitoli Gregorio indica in modo concreto varie forme di istruzione 
		secondo le varie circostanze di condizione sociale, età, salute e 
		temperamento morale degli uditori. Poveri e ricchi, allegri e 
		melanconici, superiori e sudditi, dotti e ignoranti, sfacciati e timidi, 
		e via dicendo, in quel libro, ci sono tutti, è come la valle di 
		Giosafat. Al Concilio Vaticano II parve nuovo che venisse chiamato 
		«pastorale» non più ciò che veniva insegnato ai pastori, ma ciò che i 
		pastori facevano per venire incontro ai bisogni, alle ansie, alle 
		speranze degli uomini. Quel «nuovo» Gregorio l'aveva già attuato 
		parecchi secoli prima, sia nella predicazione sia nel governo della 
		Chiesa. Il secondo dovere, espresso dalla parola «battezzare», si riferisce 
		ai Sacramenti e a tutta la liturgia. La diocesi di Roma ha seguito il 
		programma della CEI «Evangelizzazione e Sacramenti»; conosce già che 
		evangelizzazione, sacramento e vita santa sono tre momenti di un unico 
		cammino: l'evangelizzazione prepara al sacramento, il sacramento porta 
		chi l'ha ricevuto a vivere cristianamente. Vorrei che questo grande 
		concetto fosse applicato in misura sempre più larga. Vorrei pure che 
		Roma desse il buon esempio in fatto di Liturgia celebrata piamente e 
		senza «creatività » stonate. Taluni abusi in materia liturgica hanno 
		potuto favorire, per reazione, atteggiamenti che hanno portato a prese 
		di posizione in se stesse insostenibili e in contrasto col Vangelo. Nel 
		fare appello, con affetto e con speranza, al senso di responsabilità di 
		ognuno di fronte a Dio e alla Chiesa, vorrei poter assicurare che ogni 
		irregolarità liturgica sarà diligentemente evitata. Ed eccomi all'ultimo dovere vescovile: «insegnare ad osservare»; è la 
		diaconia, il servizio della guida e del governare. Benché io abbia già 
		fatto per vent'anni il vescovo a Vittorio Veneto e a Venezia, confesso 
		di non aver ancora bene «imparato il mestiere». A Roma mi metterò alla 
		scuola di S. Gregorio Magno, che scrive: «sia vicino (il pastore) a 
		ciascun suddito con la compassione; dimenticando il suo grado, si 
		consideri eguale di sudditi buoni, ma non abbia timore di esercitare 
		contro i malvagi i diritti della sua autorità. Ricordi: mentre tutti i 
		sudditi levano al cielo ciò che egli ha fatto di bene, nessuno osa 
		biasimare ciò che ha fatto di male; quando reprime i vizi, non cessi di 
		riconoscersi con umiltà eguale ai fratelli da lui corretti; e si senta 
		davanti a Dio tanto più debitore quanto più impunite restano le sue 
		azioni davanti agli uomini» (14).Qui finisce la Spiegazione delle tre letture bibliche. Mi sia permesso 
		aggiungere una sola cosa: è legge di Dio che non si possa fare del bene 
		a qualcuno, se prima non gli si vuole bene. Per questo, S. Pio X, 
		entrando patriarca a Venezia, aveva esclamato in S. Marco: «Cosa sarebbe 
		di me, Veneziani, se non vi amassi?». Io dico ai romani qualcosa di 
		simile: posso assicurarvi che vi amo, che desidero solo entrare al 
		vostro servizio e mettere a disposizione di tutti le mie povere forze, 
		quel poco che ho e che sono. Ed ecco il testo dell'indirizzo di saluto rivolto al Papa dal 
		Cardinale Ugo Poletti. Beatissimo Padre, Intimamente unito ai Vescovi del Consiglio Episcopale di Roma, e al 
		Capitolo Lateranense, ho la gioia e la responsabilità di riassumere i 
		sentimenti di fede, di amore, di devozione, di disponibile 
		collaborazione che Clero, Religiosi e popolo della vostra Diocesi Romana 
		oggi desiderano manifestarvi con limpidezza e sincerità assoluta. Annunciando questa Vostra visita alla Patriarcale Arcibasilica del 
		SS.mo Salvatore in Laterano, custode della Cattedra del Vescovo di Roma, 
		ho osato dire che si trattava di un incontro tutto romano, non già per 
		mancanza di riguardo o di considerazione ai Membri della Curia della 
		Santa Sede, che pure si chiama Romana, o agli illustri Rappresentanti di 
		tanti popoli fratelli qui presenti a farVi onore, bensì per ricordare a 
		noi stessi una particolare dimensione di vita ecclesiale e una 
		conseguente responsabilità, che deriva dal vincolo nostro con la Vostra 
		Persona. Siamo figli Vostri, come tutti i membri della Chiesa Cattolica, ma 
		con una peculiarità che è unica: questa santa Chiesa diocesana di Roma 
		appartiene solo a Voi e nessun Confratello nell'Episcopato può 
		condividerne con Voi la paternità. Siamo Vostra personale porzione ed eredità, rappresentata da quella 
		Cattedra di Pietro, di cui il Laterano è spiritualmente custode, con la 
		quale avete pure ereditato la paternità e il Magistero Universale nella 
		Chiesa Cattolica. Abbiamo un titolo personale a ricevere da Voi nutrimento e sostegno 
		con la Parola di Dio, con l'esercizio della carità e pazienza paterna, 
		con l'attenzione e sollecitudine immediata, affinché la nostra Fede non 
		venga meno e la nostra vita cristiana non si illanguidisca. Tuttavia se ci fermassimo a queste sole considerazioni saremmo figli 
		inerti, gretti, meschini: non saremmo certo Vostra corona e gaudio. Noi Vi ringraziamo per questo incontro, nella presa di possesso della 
		Vostra Cattedra Episcopale, perché ci date la gioia di avvertire più 
		acutamente e filialmente alcune nostre responsabilità attive, gravi e 
		stimolanti. Noi avvertiamo che, a causa dell'intima comunione del Popolo di Dio 
		col suo Vescovo, siamo pure in qualche modo partecipi del grave compito 
		Vostro della costruzione della Santa Chiesa nel mondo. Non solo in Roma 
		noi dobbiamo dare spazio e corpo, avvertibile dovunque alla Vostra 
		azione pastorale ed alla Vostra carità; non solo, come figli che abitano 
		in casa, dobbiamo aiutare il Padre nell'accoglienza dei fratelli che 
		vengono da lontano; ma dalla Vostra stessa presenza e missione siamo 
		aiutati, come nessun altro, a crescere in una dimensione di Fede 
		veramente cattolica, in una testimonianza di carità verso i poveri, gli 
		umili, i piccoli, gli emarginati che sia palesemente percepita dalle 
		altre Chiese sorelle. Sono doveri che la Vostra presenza qui, oggi ci ricorda con una 
		autorevolezza unica. Profondamente consapevoli delle nostre debolezze, limitazioni e 
		contraddizioni, che, nella vita ecclesiale della Città si mescolano alle 
		singolari sue capacità di bene e a forze vive cristiane, operanti ad 
		ogni livello, culturale, popolare, di dirigenza o di comunità, noi 
		avvertiamo un'altra responsabilità della «comunione ecclesiale» con Voi, 
		nostro Vescovo e Padre: noi costituiamo per Voi lo spazio di verifica di 
		tutto il bene e il dolore che, in espressioni e dimensioni diverse, si 
		muove e si estende nel mondo. Per usare un termine tecnico moderno, la 
		Diocesi di Roma costituisce per il Papa l'«indagine campione» immediata, 
		viva, gioiosa o dolorante, della vita umana e cristiana diffusa in tutto 
		il mondo. Forse per questo le tensioni, aspirazioni, possibilità operative, 
		compensi e squilibri sociali, morali, religiosi che esistono 
		inevitabilmente in ogni città, forse anche in proporzioni maggiori, 
		tuttavia a Roma assumono un'eco singolare e mondiale, che viene 
		immediatamente percepita. Cosicché, a mano a mano che conoscerete 
		intimamente la Vostra Chiesa diocesana, Voi avvertirete misteriosamente 
		la pulsazione del cuore del mondo. Riflettendo su questa situazione, noi ci sentiamo impegnati a darVi 
		un contributo, quanto più possibile vero, autentico, per facilitare la 
		Vostra missione di Pastore e Padre universale. Siamo presuntuosi? Compatiteci, Padre Santo, come deboli creature; 
		comprendeteci come persone volenterose; amateci e sosteneteci come figli 
		sinceri, che vogliono esservi fedeli. Sul filo di queste considerazioni, la gioia esplosiva della Vostra 
		Chiesa nell'incontro col suo Vescovo, si fa più riflessiva e 
		consapevole. La gioia non può sostituire il dovere, ma dal dovere 
		avvertito e compiuto si consolida la gioia portatrice di nuovi frutti. Voi - in una continuazione dell'opera del venerato Papa Paolo VI, 
		fatta così umana e sensibile negli ultimi anni - già ci avete dato molto 
		in fiducia, in amabile paternità e ancor più ci darete in fortezza 
		spirituale e in assistenza magisteriale e morale. Noi, piccoli, che cosa possiamo offrirvi? Un dono che rientri nella 
		collaborazione di Fede e di carità, in aiuto dei più poveri. Parrocchie, Istituti Religiosi e fedeli hanno risposto generosamente 
		all'invito, da me lanciato, di offrirvi la possibilità di costruire una 
		« casa di Dio e di carità fraterna» in una borgata modesta di Roma: a 
		Castelgiubileo sulla Salaria, dove la Parrocchia dei Santi Crisante e 
		Daria è ancor priva di tutte le strutture parrocchiali. Sono stati raccolti finora oltre cento milioni; il primo dono paterno 
		che Papa Giovanni Paolo offre alla sua Diocesi di Roma. Benedite, Padre Santo, il Cardinale Vicario e i Vescovi Vostri 
		collaboratori, il Venerando Capitolo e Clero Lateranense, il Presbiterio 
		diocesano coi Seminari e con gli Istituti; ma soprattutto la Città e 
		Diocesi di Roma, con tutti i suoi responsabili religiosi e civili, e 
		specialmente coi suoi figli, in particolare i più poveri e gli ammalati, 
		con l'auspicio di Maria «Salus Populi Romani». 
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