Riflessi viola brillavano negli occhi del cavaliere, mentre in piedi fra
i merli della torre guardava verso oriente, all'alba, quando il sole
spalanca i broccati dorati del cielo.
Erano finiti i giorni di pioggia, il lungo inverno settentrionale, con
le nebbie e il gelo, i giorni senza luce e senza tramonto. Era di nuovo
tempo di partire.
Un brivido leggero aveva graffiato la sua esultanza, quel mattino. Solo
un brivido leggero, ma spiacevole. Una dolorosa puntura che insinuava un
pensiero di giorni, di anni, di tempo.
La sua armatura, un tempo lucida e scintillante, ora portava i segni di
tante battaglie, la spada di purissimo acciaio non brillava come un
tempo e i ricami dorati dell'elsa erano consunti. Come se una mano
dispettosa si fosse divertita ad appannare tutto.
Ma sulla tenda del cavaliere garriva al vento il vessillo del
vincitore. Nessuno aveva mai potuto strapparlo e il cuore del cavaliere
ancora batteva per le grandi imprese. I capelli si erano fatti opachi e
ingrigivano, ma nelle lunghe cavalcate mattutine ancora fremevano al
vento. Gli occhi sapevano ancora lanciare lampi e nel suo animo forte
rullavano più che mai i tamburi della gloria.
Mille duelli, mille combattimenti avevano lasciato ammaccature sullo
scudo, cicatrici in tutto il corpo e rughe sottili sul volto. Quando sul
suo nervoso cavallo sfilava in parata circondato dai suoi paggi vestiti
d'oro e di seta, preceduto da una schiera di araldi velo-ci su piccoli
cavalli arabi che portavano lunghe trombe d'argento, la gente si
affollava per applaudire e ammirare.
Perché subito davanti al cavaliere cavalcava il suo scudiero che
reggeva, alta e prepotente, come un trofeo, la celebre e gloriosa
camicia del cavaliere. Una camicia di seta rossa che aveva
quaranta-nove strappi. I quarantanove draghi che il cavaliere aveva
sfidato e ucciso. Quel brandello rosso che ondeggiava nel vento era la
sua gloria più grande. Nessun altro cavaliere al mondo poteva vantare
nulla di simile.
Ogni strappo rammentava al cavaliere ore e ore di sudore e di sangue. I
ruggiti, le urla, le fiamme, gli artigli che laceravano la carne. I
sussulti dell'agonia, il vano annaspare degli artigli, l'ebbrezza della
vittoria, il trionfo.
Quarantanove volte.
Ed ecco, mentre il cavaliere sostava assorto nel quieto bisbigliare
della giornata che si destava, un galoppo sfrenato, un ansito strozzato,
un grido:
«Un drago! Un drago gigante al ponte sul Reno!»
In un attimo lo schiaffo della paura si abbatté sul villaggio e sul
castello. Si udivano porte che venivano sbarrate, mentre le lance
venivano tratte dalle armerie, i contadini radunavano il bestiame per
portarlo nella cerchia delle mura del castello e le madri affannate
cercavano i bambini.
All'orizzonte, verso il grande fiume, si sentiva un rombo di terrore. Si
intuivano fiamme e fumo e distruzione selvaggia. Tutti alzarono gli
occhi verso la torre.
Il cavaliere, lui solo, poteva salvarli.
E il cavaliere era pronto. In pochi istanti aveva indossato l'arma-tura
e imbracciato le pesanti armi. Cavalcava da solo, come sempre, in
compagnia soltanto del suo coraggio. Non aveva pronunciato una parola.
Quella sera, la camicia di seta rossa avrebbe semplicemente avuto uno
strappo in più.
Il drago era un'ombra nera nel cielo, gli occhi mandavano bagliori
rossastri, l'alito infuocato ammorbava l'aria, la coda spazzava le cime
degli alberi.
Il cavaliere l'osservò in silenzio. Non abbassò gli occhi. Sfidò il
drago. Trattenendo con il polso ferreo, il cavallo spaventato. Non
l'avrebbe sconfitto con la forza, ma con l'intelligenza. Attirò il drago
nel folto della foresta. La mostruosa creatura s'imbrigliò, trascinata
dalla sua stessa folle violenza, nel viluppo dei tronchi giganteschi.
Ora il cavaliere doveva solo attendere. Sapeva dove colpire: la poderosa
arteria pulsante nella gola coperta di scaglie verdi.
Dopo ore di veemente lotta, spossato, il drago espose la gola al
cavaliere che attendeva, fermo, implacabile. Era finita. Nei grandi
occhi iniettati di sangue della bestia, il terrore e la rassegnazione
sostituirono la ferocia.
Il velo della morte avvolse la foresta. Il cavaliere rivolse la spada
verso l'arteria che pulsava convulsamente. Doveva squarciarla con un
fendente deciso e con il sangue sarebbe defluita anche la vita.
I muscoli del cavaliere si tesero, ma la spada non scattò verso il
bersaglio. Il cavaliere aveva sentito qualcosa. E il doloroso pensiero
del mattino era tornato.
Il cuore del drago batteva all'unisono con il cuore del cavaliere. Il
tamburo della vita è uno solo, pensò.
Con un gesto risoluto conficcò la spada in un tronco e voltò il cavallo,
accarezzandogli la criniera fumante: «Torniamo a casa» disse.
Un grande silenzio, fatto di stupore e venato di delusione, lo accolse
al villaggio. Il cavaliere lo attraversò in silenzio e si diresse verso
la grande casa dove viveva la sua famiglia. Quando intravide la collina,
su cui sorgeva la casa di pietra grigia, buttò l'elmo con il pennacchio
giallo e rosso, poi lo scudo, la corazza, i gambali, la ma-glia di
ferro.
Il cavallo, alleggerito, partì al galoppo.
Come preavvertiti, i suoi gli vennero incontro. La moglie (com'era ancor
giovane e bella, come aveva fatto a non pensarci?), i figli (cielo,
com'erano cresciuti!), la casa (le porte hanno bisogno di una mano di
vernice)... Tutto gli sembrava così nuovo!
Quando abbracciò moglie e figli (da quanto tempo non lo faceva più?) il
doloroso pensiero svanì.
«La vita è tutto quello che abbiamo... tutto quello che abbiamo»
mormorò.
Poi legò la gloriosa camicia rossa al ramo di un melo dell'orto. Da
lontano poteva sembrare un fiore o anche soltanto quello che restava di
uno spaventapasseri.
Il tamburo della vita è uno solo. Questo che batte nel tuo petto.
Ascoltalo, oggi. |