domenica  1 aprile 2012

LA CAMICIA DEL CAVALIERE

Riflessi viola brillavano negli occhi del cavaliere, mentre in piedi fra i merli della torre guardava verso oriente, all'alba, quando il sole spalanca i broccati dorati del cielo.

Erano finiti i giorni di pioggia, il lungo inverno settentrionale, con le nebbie e il gelo, i giorni senza luce e senza tramonto. Era di nuovo tempo di partire.

Un brivido leggero aveva graffiato la sua esultanza, quel mattino. Solo un brivido leggero, ma spiacevole. Una dolorosa puntura che insinuava un pensiero di giorni, di anni, di tempo.

La sua armatura, un tempo lucida e scintillante, ora portava i segni di tante battaglie, la spada di purissimo acciaio non brillava co­me un tempo e i ricami dorati dell'elsa erano consunti. Come se una mano dispettosa si fosse divertita ad appannare tutto.

Ma sulla tenda del cavaliere garriva al vento il vessillo del vinci­tore. Nessuno aveva mai potuto strapparlo e il cuore del cavaliere ancora batteva per le grandi imprese. I capelli si erano fatti opachi e ingrigivano, ma nelle lunghe cavalcate mattutine ancora fremevano al vento. Gli occhi sapevano ancora lanciare lampi e nel suo animo forte rullavano più che mai i tamburi della gloria.

Mille duelli, mille combattimenti avevano lasciato ammaccature sullo scudo, cicatrici in tutto il corpo e rughe sottili sul volto. Quando sul suo nervoso cavallo sfilava in parata circondato dai suoi paggi vestiti d'oro e di seta, preceduto da una schiera di araldi velo-ci su piccoli cavalli arabi che portavano lunghe trombe d'argento, la gente si affollava per applaudire e ammirare.

Perché subito davanti al cavaliere cavalcava il suo scudiero che reggeva, alta e prepotente, come un trofeo, la celebre e gloriosa ca­micia del cavaliere. Una camicia di seta rossa che aveva quaranta-nove strappi. I quarantanove draghi che il cavaliere aveva sfidato e ucciso. Quel brandello rosso che ondeggiava nel vento era la sua glo­ria più grande. Nessun altro cavaliere al mondo poteva vantare nulla di simile.

Ogni strappo rammentava al cavaliere ore e ore di sudore e di sangue. I ruggiti, le urla, le fiamme, gli artigli che laceravano la carne. I sussulti dell'agonia, il vano annaspare degli artigli, l'ebbrezza della vittoria, il trionfo.

Quarantanove volte.

Ed ecco, mentre il cavaliere sostava assorto nel quieto bisbigliare della giornata che si destava, un galoppo sfrenato, un ansito strozzato, un grido:

«Un drago! Un drago gigante al ponte sul Reno!»

In un attimo lo schiaffo della paura si abbatté sul villaggio e sul castello. Si udivano porte che venivano sbarrate, mentre le lance ve­nivano tratte dalle armerie, i contadini radunavano il bestiame per portarlo nella cerchia delle mura del castello e le madri affannate cercavano i bambini.

All'orizzonte, verso il grande fiume, si sentiva un rombo di terrore. Si intuivano fiamme e fumo e distruzione selvaggia. Tutti alzarono gli occhi verso la torre.

Il cavaliere, lui solo, poteva salvarli.

E il cavaliere era pronto. In pochi istanti aveva indossato l'arma-tura e imbracciato le pesanti armi. Cavalcava da solo, come sempre, in compagnia soltanto del suo coraggio. Non aveva pronunciato una parola. Quella sera, la camicia di seta rossa avrebbe semplicemente avuto uno strappo in più.

Il drago era un'ombra nera nel cielo, gli occhi mandavano ba­gliori rossastri, l'alito infuocato ammorbava l'aria, la coda spazzava le cime degli alberi.

Il cavaliere l'osservò in silenzio. Non abbassò gli occhi. Sfidò il drago. Trattenendo con il polso ferreo, il cavallo spaventato. Non l'avrebbe sconfitto con la forza, ma con l'intelligenza. Attirò il drago nel folto della foresta. La mostruosa creatura s'imbrigliò, trascinata dalla sua stessa folle violenza, nel viluppo dei tronchi giganteschi. Ora il cavaliere doveva solo attendere. Sapeva dove colpire: la poderosa arteria pulsante nella gola coperta di sca­glie verdi.

Dopo ore di veemente lotta, spossato, il drago espose la gola al cavaliere che attendeva, fermo, implacabile. Era finita. Nei grandi occhi iniettati di sangue della bestia, il terrore e la rassegnazione sostituirono la ferocia.

Il velo della morte avvolse la foresta. Il cavaliere rivolse la spada verso l'arteria che pulsava convulsamente. Doveva squarciarla con un fendente deciso e con il sangue sarebbe defluita anche la vita.

I muscoli del cavaliere si tesero, ma la spada non scattò verso il bersaglio. Il cavaliere aveva sentito qualcosa. E il doloroso pensiero del mattino era tornato.

Il cuore del drago batteva all'unisono con il cuore del cavaliere. Il tamburo della vita è uno solo, pensò.

Con un gesto risoluto conficcò la spada in un tronco e voltò il cavallo, accarezzandogli la criniera fumante: «Torniamo a casa» disse.

Un grande silenzio, fatto di stupore e venato di delusione, lo accolse al villaggio. Il cavaliere lo attraversò in silenzio e si diresse ver­so la grande casa dove viveva la sua famiglia. Quando intravide la collina, su cui sorgeva la casa di pietra grigia, buttò l'elmo con il pennacchio giallo e rosso, poi lo scudo, la corazza, i gambali, la ma-glia di ferro.

Il cavallo, alleggerito, partì al galoppo.

Come preavvertiti, i suoi gli vennero incontro. La moglie (com'era ancor giovane e bella, come aveva fatto a non pensarci?), i figli (cielo, com'erano cresciuti!), la casa (le porte hanno bisogno di una mano di vernice)... Tutto gli sembrava così nuovo!

Quando abbracciò moglie e figli (da quanto tempo non lo faceva più?) il doloroso pensiero svanì.

«La vita è tutto quello che abbiamo... tutto quello che abbiamo» mormorò.

Poi legò la gloriosa camicia rossa al ramo di un melo dell'orto. Da lontano poteva sembrare un fiore o anche soltanto quello che restava di uno spaventapasseri.

 

Il tamburo della vita è uno solo. Questo che batte nel tuo petto. Ascoltalo, oggi.

           
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