domenica  23 novembre 2014
 

NORMALE TAVOLO DI NOCE

 

Era stato un albero, tanti anni prima, un bel noce robusto che svettava su un prato verde, ricamato di margherite e fiori di trifoglio. Era diventato una pila di assi e poi le abili mani di un falegname lo avevano trasformato in un tavolo, un normalissimo tavolo da cucina. Come tavolo aveva iniziato la sua carriera in un grande magazzino di mobili, in mezzo ad armadi, cassettoni, letti e specchiere.

Un giorno, si affacciarono nel negozio una ragazza bruna e un giovanotto un po' impacciato. La ragazza camminava attenta, guar­dando i mobili, aprendo le ante degli armadi e i cassetti delle cuci­ne. Il giovanotto si preoccupava dei cartellini con il prezzo, anche se cercava di non farsene accorgere troppo.

Il tavolo, lustro tanto da specchiare tutte le luci del negozio, eb­be un brivido di felicità quando la ragazza lo accarezzò gentilmen­te con gli occhi prima che con la mano, mentre le labbra dicevano: «Questo, mi sembra proprio adatto...».

Il giovanotto, naturalmente, guardò subito il cartellino con il prezzo e fischiettò: «Però...».

La mano della ragazza si posò lievemente sul braccio del giova­ne, che si affrettò a dire: «Ma certo, va benissimo».

Così il tavolo di noce entrò in una casa nuova, in una cucina ancora più nuova.

Due sere dopo, rivestito di una tovaglia ricamata, poté assistere alla prima cena del giovanotto e della ragazza, che si erano sposati quel mattino. Era emozionato anche lui.

«Adesso siamo una famiglia», disse la sposina, mettendo in ta­vola l'insalata. «Stai attento alla camicia», aggiunse subito dopo, «adesso tocca, a me lavare...». Scoppiò a ridere anche il tavolo, che cominciò così la sua vita con Marisa e Pierluigi.

I primi mesi furono una specie d'incanto. Marisa e Pierluigi non facevano che dirsi quanto bene si volevano e il tavolo era sempre spol­verato e lucido. Faceva qualche volta i conti con gli schizzi della maio­nese o del caffè bollente, ma poi una provvida spugna cancellava ogni traccia e metteva in allegria il tavolo, con il suo lieve solletico.

Molto più amare furono, una sera, le lacrime che piovvero sul tavolo dagli occhi di Marisa. La cosa più bruciante che il buon tavo­lo avesse mai sentito.

«Tu avevi promesso...», singhiozzava Marisa.

«Perché non ti metti al mio posto? Credi che sia facile?... E smet­tila di fare piagnistei!», urlò Pierluigi e sbatté il pugno sul tavolo. Un'altra esperienza amarissima per il povero tavolo. Ma quasi si mi­se a ballare, come uno di quei tavolini truccati che si usano nelle se­dute spiritiche, quando Pierluigi e Marisa si abbracciarono dicen­dosi, con tenera sincerità: «Perdonami...».

«Non mi annoio di certo: con questi due imparo qualcosa di nuovo ogni giorno», pensava il tavolo.

E un'esplosione di felicità coinvolse la casa quando Marisa, con gli occhi splendenti, disse a Pierluigi: «Presto saremo in tre... È in ar­rivo un bebè!».

Il tavolo scricchiolò di gioia.

Non furono mesi facili, quelli della grande attesa. Qualche voltaMarisa appoggiava le braccia sul tavolo e su di esse abbandonava la testa, sospirando.

Mentre vegliava silenzioso il suo riposo, il tavolo si sforzava di donarle un po' della sua pacata solidità.

Perché quando arrivò il bebè la casa dimenticò perfino il signifi­cato della parola «pace». Strilli, corse, poppate, pannolini puliti e, naturalmente, sporchi. Il tavolo condivideva tutto.

Quell'esserino urlante coinvolgeva tutta la casa, vicini compresi, nell'avventura che aveva intrapreso.

«Alessandro mi pare un bel nome: un po' lungo ma solenne», disse Don Beppe, il parroco, quando venne a preparare il Battesimo con Marisa e Pierluigi. Naturalmente sul tavolo di noce.

Alessandro si trasformò presto in Sandrino, un frugoletto in pe­renne movimento che pareva aver scelto come punto d'onore quel­lo di incidere, scorticare, graffiare e bollare con ogni sorta di stru­menti il povero tavolo della cucina. Che, anno dopo anno, perse la lucentezza, la vernice e anche qualche scheggia di legno nei punti più delicati delle gambe.

Si sentiva più malandato, certo, ma continuava a non annoiarsi. Anzi...

Assistette commosso ai primi tentativi di scrittura e di lettura di Sandrino, ascoltò più e più volte le storie della Bibbia, quando il ra­gazzino si preparava alla prima Comunione e leggeva il grande libro con la mamma o il papà.

Il tavolo aveva una innata simpatia per san Giuseppe e Gesù, che di mestiere facevano i falegnami.

Appena Sandrino fu in grado di mangiare senza costellare il ta­volo di macchie e spruzzi, si annunciò l'arrivo di un altro angiolet­to urlante.

Il tavolo, naturalmente, aveva partecipato alla discussione di Ma­risa e Pierluigi sul nome da dare al nuovo bebè. «Questa volta un nome breve», diceva Pierluigi. «Quando ho finito di urlare "Ales­sandro", quello è già scappato».

«Sono sicura che sarà una bambina», ribatteva Marisa. «Voglio un nome dolce e pieno di grazia».

«Se assomiglia a suo fratello propongo peste», diceva Pierluigi. «Sarà una bellissima bambina. Propongo Maria Gloria».

«Mi piace», disse il tavolo.

Quando la bambina arrivò, Sandrino decise invece di chiamarla «Mostro».

Tutto ricominciò: pianti, poppate ad ore impossibili, schizzi di li­quidi bollenti, pannolini. Per un po' il tavolo ridivenne il posto su cui tutti appoggiavano tutto.

Ma il tavolo era immensamente felice.

«Ho davvero una bella famiglia», pensava.

Gioie e dolori fiorivano inevitabilmente intorno al tavolo: le fe­ste di compleanno, i litigi, le riconciliazioni. «Alessandro, ti ho det­to mille volte che ti voglio a casa per le quattro! È chiaro?». Di soli­to le baruffe cominciavano con frasi di questo genere. Qualche vol­ta Sandrino reagiva: «In questa casa ce l'avete tutti con me!».

«Io, no!», diceva il tavolo, ma naturalmente nessuno lo sentiva. Ma poi tutto finiva con un abbraccio.

I mesi correvano, i due ragazzi crescevano e, un mattino, Mari­sa esclamò allarmata: «Guarda, un capello bianco!».

«A chi lo dici! Io ne ho almeno una dozzina», rispose Pierluigi.

Il vecchio tavolo era segnato da decine di cicatrici e ormai zop­picava un po'. Così un mattino sentì le parole che temeva di più: «Ormai i ragazzi sono cresciuti. Perché non cambiamo il tavolo del­la cucina?».

«Oh, mamma», intervenne Alessandro. «Abbiamo bisogno di un tavolo per la nostra sala all'oratorio. Lo possiamo prendere noi?».

Vennero a prenderlo un sabato mattina. Il tavolo sentiva dolore in ogni fibra. Minuscole gocce di resina si formarono sotto gli an­goli. Erano le sue lacrime, ma ancora una volta, nessuno se ne ac­corse.

«Addio Marisa, addio Pierluigi, addio Sandrino, addio Maria Gloria», diceva il tavolo, mentre sbattendolo di qua e di là lo portavano giù per le scale.

L'oratorio non era esattamente un sereno pensionamento per il tavolo. Uno stormo di ragazzini e ragazzine cinguettanti lo accolse con un entusiasmo contagioso. Il vecchio tavolo ritrovò la felicità.

Lo dipinsero di un orribile rosa confetto e ne fecero il vero cen­tro del gruppo. Tutto avveniva sul tavolo: gli incontri con Francesca, l'animatrice, l'elaborazione dei manifesti, i lavoretti per il banco di beneficenza.

Il tavolo imparò a sue brucianti spese il significato della parola «pirografo», assaggiò infinite volte pizze di tutti i tipi e fu inondato da fiumi di Coca Cola.

Così passarono altri anni. Il tavolo fu ridipinto in azzurro, in viola, in giallo canarino, in verde petrolio. Le sue gambe non regge­vano più, erano uscite dall'incastro e neanche i chiodi più tenaci riuscivano a mantenerle al loro posto.

Una sera, sentì appena le parole che si scambiavano il parroco e un animatore.

«È la notte di Pasqua. Stasera dobbiamo fare un bel falò in corti­le. Trovami un po' di legna ben secca».

«Prendiamo il tavolo della sala dei ragazzi... Non regge proprio più».

Lo portarono fuori e lo fecero a pezzi.

Non se lo sarebbe davvero immaginato, ma non sentì assoluta­mente dolore quando gli appiccarono fuoco. Si trasformò in luce e calore, si sentì come il sole, quel sole che lo scaldava e lo faceva cre­scere quando era un albero, tanti e tanti anni prima. Con le sue ma­ni di luce e calore accarezzò per l'ultima volta i ragazzi che stavano intorno a lui. Un filo di fumo prese decisamente la via del cielo.

Lassù san Giuseppe, che se ne intende, lo accolse dicendo: «È sta­to davvero un ottimo tavolo».

 

Perché non chiedi al tuo tavolo di raccontare la sua storia?

 
 
 

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