GUERRE DI UNA VOLTA

 

Basta salire su qualche monte dell'Ampezzano, su uno di quei monti da dove si potevano

controllare le principali valli di comunicazione tra l'Italia e l'Austria, per capire che cosa sia stata

la prima guerra mondiale, la guerra di trincea. Per l’impervio sentiero che conduce al monte Piana, tra le rocce, allo scoperto, si scorge ancora il legname usato per le baracche, i tronchi posti a terra per superare i passaggi difficili, gli scavi nella roccia di protezione e si può ben immaginare la fatica ed il pericolo dei soldati che salivano appesantiti dalle armi, dalle vettovaglie, esposti al fuoco del nemico. In cima al monte i segni della guerra sono ovunque: pezzetti di anni, di elmetti arrugginiti, filo di ferro spinato e, soprattutto, una lunga trincea, una ferita profonda inferta al monte, che la terra trasportata dal vento, l'erba e i fiori non hanno ancora guarito. Le trincee sono bocche che ci parlano di privazioni, di angoscia, di sangue, di morte.

LA VITA IN TRINCEA

Facile immaginare quale fosse la vita di trincea per i poveri soldati dell'una e dell'altra parte:

esposti al vento, al gelo che spacca la pelle, alla pioggia che bagna le divise, con i piedi nel fango, sporchi, affamati, assetati, vedere sempre lo stesso cielo, ma non poter ammirare le albe e i tramonti, la bellezza e la maestosità delle montagne nell'alternarsi dei giorni e delle ore del giorno, perché mettere fuori il naso dalla trincea era morte quasi certa. Ma la cosa più insensata era patire le stesse pene eppure doversi odiare ed uccidersi. A volte l'umanità aveva il sopravvento e si permetteva al nemico di andare a riprendersi un soldato ferito, perché i suoi lamenti erano uno supplizio per tutti oppure ci si scambiava, da una trincea all'altra, qualche parola di saluto, qualche pezzo di pane.

Mia nonna parlava spesso de "l'an de la fan' quando i nostri soldati dovettero abbandonare tutte le postazioni conquistate con sudore e sangue e riorganizzarsi per la difesa sul Piave. Allora i Tedeschi occuparono le nostre terre e bisognò affrontare un lungo anno di privazioni e di fame perché dalla pianura non giungevano più le granaglie: i Tedeschi requisivano tutto il cibo che potevano trovare. Ci fu chi fece in tempo a riporre in luoghi nascosti cibo e biancheria, chi scavò buche nell'orto per nascondervi preziosi. Sempre mia nonna diceva che, tra i soldati nemici, i più affamati erano i bosniaci, che ricevevano le briciole e che si rivolgevano alle donne con: "Mama, mama' e indicando la bocca con la mano, mendicavano un po' di cibo. Come rifiutare loro almeno una fetta di polenta? Chi aveva un po' di terra mangiava, ma per gli altri fu la fame nera.

CONSEGUENZE DELLA GUERRA

La prima guerra mondiale procurò lutti e sofferenze a non finire che, forse, si sarebbero potuti evitare se i nostri governanti avessero accettato le proposte dell'Austria che ci garantiva Trento e Trieste in cambio della neutralità dell'Italia. Alla fine della guerra l'Italia si trovò impoverita perché erano venute a mancare le belle menti e le braccia robuste dei giovani, che sono la vita e la forza di una Nazione. Credo ci sia un modo diverso di pensare, uno stile di vita diverso tra coloro che sono stati testimoni della 2.a guerra mondiale e coloro che sono nati dopo. Chi è nato più tardi penso abbia un'idea piuttosto vaga, su ciò che è stata la dittatura fascista, la guerre l'occupazione nazista e la lotta partigiana. A scuola, poiché i programmi di storia sono molto vasti, manca sempre il tempo per approfondire

NATA IN GUERRA

Sono nata durante il fascismo e di quel periodo conservo alcuni chiari ricordi. Noi bambini cantavamo le canzoni che evocavano le guerre dell'Africa ed altre che esaltavano la romanità con versi altisonanti e musiche facili e piacevoli. Il nonno materno scuoteva la testa e brontolava: '-Tutta propaganda fascista". Mia madre, vedova, con me piccola da mantenere e la nonna patema inferma, lavorava da mane a sera e non aveva né tempo né voglia di occuparsi di politica, ma le sarebbe piaciuto avere un lavoro sicuro tipo bidella o infermiera. Si rivolse, allora, ad una compaesana, vicina di casa, che aveva sposato un fascista che contava qualcosa in città, sperando in un aiuto. La risposta fu: "ben volentieri sarebbe stata aiutata a patto che si fosse iscritta al partito fascista.

A mia madre sembrò un ricatto e lasciò perdere. Indossavo anch'io la divisa da piccola italiana, ma mia madre non volle mai appuntare sulle bretelle la "M" iniziale di Mussolini a mia figlia

etichette non ne voglio mettere, deciderà lei quando sarà più grande",.

A scuola imparai a memoria il giuramento fascista e altre notizie sulla vita e sulle opere di

Mussolini e sulla casa reale, ma la maestra non insistette molto, forse era di fede diversa.

Con la guerra iniziò il calvario delle famiglie che avevano i figli nei vari fronti di guerra ed i primi lutti. Ricordo l'ansia di una nostra inquilina che aveva un figlio militare in Africa quando per alcuni mesi, non ebbe più sue notizie. Ogni giorno dispiegava la cartina geografica e cercava un puntolino, un'oasi, nel deserto libico: "Ecco vedi? Gigi è qui" e ogni volta erano lacrime amare. Ma un giorno sentì chiamare dalla via Rugo e dalla finestra vide il postino agitare festosamente una lettera: "E' di Gigi". Le scale le fece quasi volando e non poteva leggere per l'emozione e le lacrime, finalmente di gioia.

VITA DI GUERRA

Alla radio i bollettini di guerra erano sempre ottimisti, davano molto risalto alle vittorie, al valore, al sacrificio dei nostri soldati, ma la realtà era molto diversa e, dopo un primo periodo di vittorie, iniziò il ripiegamento su tutti i fronti e molti nostri soldati caddero in combattimento o furono fatti prigionieri. E quando gli alleati sbarcarono in Sicilia fu chiaro a tutti che la guerra era perduta.

Gli ultimi due anni di guerra furono i più terribili e l'intera popolazione fu coinvolta. Gli alleati intensificarono i bombardamenti sulle nostre città: i piloti miravano a colpire ferrovie, ponti, fabbriche, ma spesso colpivano abitazioni civili causando un gran numero di vittime e i rifugi antiaerei si rivelarono spesso trappole mortali. Chi poteva fuggiva dalla città e si riparava in campagna anche perché, in città, i viveri iniziavano a scarseggiare. Dopo la caduta del fascismo e l'armistizio, i nostri soldati, allo sbando, cercarono di ritornare in famiglia, ma molti furono presi dai Tedeschi ed inviati in Germania, nei campi di concentramento, altri fuggirono in montagna ed iniziarono la resistenza, altri ancora furono convinti a far parte dell'esercito repubblichino. E nella guerra ci fu un'altra guerra tra Italiani di fede diversa.

GUERRA FRATRICIDA

Mia madre, infermiera all'ospedale civile della città, ritenne più sicuro mandarmi dai nonni, in campagna. Il nonno materno era stato eletto capo frazione perché, dati i tempi così brutti, nessun altro, aveva voluto assumersi un incarico che comportava responsabilità e pericolo. Egli era fiero della fiducia accordatagli dai compaesani, ma la nonna brontolava e paventava disgrazie: "Perché mai hai accettato, se succede qualcosa in paese, se viene ucciso qualche tedesco per prima cosa i Tedeschi ne chiedono conto al capo frazione e bruciano la nostra casa e magari ci uccidono tutti'. Infatti si aveva notizia di rappresaglie terribili operate dai Tedeschi nell'Agordino, nell'Alpago ed

in altre parti della provincia: paesi interi bruciati, anche con le persone in casa, ostaggi fucilati o impiccati e tra questi anche adolescenti che avevano avuto la sventura di trovarsi sulla strada dei soldati tedeschi. Tristemente famosi furono gli impiccati di Valmorel, del Boscon e di piazza Campitello. Dopo l'agguato del ponte S. Felice, a Trichina, i partigiani che si sentivano braccati e spiati, sequestrarono ed uccisero persone che, a torto o ragione, ritenevano spie. Un pomeriggio, mentre giocavo con le mie amiche in piazza, vidi uscire dalla sua casa una donna che si rivolse a me con queste parole: "Guarda là, l'incosciente, sta giocando e non gliene importa nulla che suo cugino sia stato ucciso dai partigiani". Costernata, corsi da mia nonna per avere spiegazioni, ma ebbi risposte evasive. In seguito sentii altre voci sulla morte di questo mio cugino paterno, che

conoscevo poco, ma che ricordavo gioviale ed affettuoso. Dissi allora a mia nonna che volevo la verità e seppi come era potuto accadere. Mio cugino, che era partigiano, era stato fatto prigioniero dai nazisti e torturato come altri partigiani. La madre, che era tedesca, chiese ed ottenne di parlare al comandante per poter vedere il figlio. Riuscì a convincere i nazisti che il figlio non era partigiano? Indusse il figlio a tradire i compagni? Non si seppe mai, ma poiché era stato scarcerato venne sospettato di aver fatto la spia, sequestrato ed ucciso dai partigiani. Il fatto mi addolorò molto e pensavo al padre, mio zio, che aveva partecipato alla 1 A guerra mondiale, che era tornato dal fronte ammalato e che era morto dopo qualche anno di tubercolosi contratta in guerra. Il sacrificio dei padre non poteva essere un'attenuante per il figlio? Compresi che ciascuno di noi risponde personalmente delle proprie azioni.

Quasi ogni giorno passavano gli aerei bombardieri, a squadriglie distanziate, in perfetta

disposizione geometrica; si annunciavano con rombo flebile, poi sbucavano dal Col Visentin e il rombo diventava assordante; volavano alti, luccicanti nell'aria, lenti e grevi, in direzione nord,

erano belli a vedersi, ma portavano la morte. Non temevamo per noi, ma per i nostri soldati prigionieri nei campi di concentramento in Germania.

BOMBARDAMENTO DI BELLUNO

A terra, sui prati, sulle siepi si posavano sottili fili argentei che, si diceva, avevano lo scopo di confondere i radar nemici. Ma un giorno si sparse la voce che "si bombardava Belluno" e corremmo in molti in cima a un colle da cui non si poteva vedere la città, ma sì vedevano bene gli aerei volare bassi, scaricare gli ordigni lungo la ferrovia e risalire verso Ponte nelle Alpi.

Eravamo impauriti ed affascinati e non potevamo distogliere gli occhi da quegli aerei che, da lontano, sembravano enormi giocattoli. Non vi furono molti danni solo tanta paura negli abitanti della città.

LE CAMPANE DELLA PACE

E venne marzo e il corniolo vestito di minuti fiori gialli ci parlava di primavera e di pace. Ancora un mese, alla fine da tutte le Chiese si sparse dalle vallate ai monti il suono solenne e

festoso delle campane che annunciavano la fine della guerra e nuova vita per tutti.

E iniziarono ad arrivare, alla spicciolata, i soldati superstiti, chi dai campi di concentramento, chi dalle colonie, alcuni a piedi, percorrendo migliaia di chilometri, aiutati e sfamati da quelli che prima erano considerati nemici. Un giorno qualcuno mi disse che stava arrivando mio zio, ma quando lo vidi giungere in fondo alla via, mi emozionai e invece di andargli incontro scappai in casa per dirlo alla nonna e agli altri famigliari. E fu gioia grande.

Ancora non era tornato Alfredo, il cugino che era partito per il fronte russo con la divisione Julia. Facevamo progetti di una grande festa, su in casera, e di cuocere due o tre polente da mangiare in comunione con tutti i parenti quando fosse tornato. Ma passarono i giorni, i mesi, gli anni e Alfredo non tornò e noi, per consolarci, pensammo che fosse stato salvato da qualche buona famiglia russa e avesse cambiato identità, per non essere fatto prigioniero. Soltanto la madre non si stancò di aspettare, spiava il cancello, nella speranza di vedere entrare una nota figura, un viso noto dal sorriso allegro e commosso. "Mare, son qua". E poi un lungo abbraccio e non poter più parlare.

                                                                                     Giovanna

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