LE LETTERE DELL'ALFABETO
Un ebreo semplice si perse in una foresta.
Al tramonto si accorse di non avere con sé il libro delle preghiere.
Allora si rivolse a Dio così: «Mio Signore, ho dimenticato il libro
delle orazioni e ho una memoria così debole da non essere capace di
pregare bene e in modo a te gradito. Eppure tu conosci tutte le
preghiere degli uomini. Allora io ti reciterò le lettere dell'alfabeto e
tu le ordinerai così da comporsi in preghiera». Dio disse tra sé,
ascoltando quell'uomo: «Questa è l'orazione più preziosa che oggi sia
salita al cielo!».
Anni fa trovai in un'edicola della Victoria
Station di Londra un libretto intitolato Il tesoro della sapienza
giudaica. Ritrovo quel pocket ingiallito e gli occhi mi cadono proprio
su questa bella parabola, una celebrazione dei puri di cuore che lodano
Dio in semplicità e umiltà. Spesso noi teologi siamo tentati di guardare
col sopracciglio alzato la persona che corre in chiesa ad accendere la
candela, che dice le preghiere dell'infanzia, che sa solo lamentarsi con
Dio e ignora cosa sia la contemplazione, l'inno di lode e la dossologia.
Dobbiamo educare, certo, i fedeli a una
preghiera più matura e corretta teologicamente, dobbiamo esigere che la
liturgia sia il culmine della pietà e far scoprire i tesori
dell'orazione ecclesiale. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che Dio va
dritto ai cuori e sa cogliere anche il respiro di fede di un uomo o di
una donna che dicono a lui solo l'alfabeto della loro fiducia. E tutti
noi dobbiamo imparare a lasciare nella nostra anima una piccola oasi ove
possa respirare e giocare la nostra infanzia spirituale che si abbandona
con spontaneità e schiettezza a Dio, «come un bimbo svezzato in braccio
a sua madre» (Salmo 131, 2).
IL DOLORE VERO
Per un dolore vero, autentico, anche gli
imbecilli sono diventati qualche volta intelligenti… Questo sa fare il
dolore.
Non so se ho già citato, in una delle non
rare occasioni che abbiamo avuto per riflettere sulla misteriosa realtà
della sofferenza, una frase del racconto I due autisti di Dino Buzzati:
«Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al
paragone della quale il granito è burro. E non basta un'eternità per
cancellarlo». Oggi ritorno sul tema del "vero dolore" e della sua
straordinaria incisività con un'altra frase in cui m'imbatto leggendo un
articolo. È una citazione dai Demoni del grande scrittore russo
Dostoevskij. Anche qui c'è l'espressione "vero dolore" e c'è anche una
sorta di cartina di tornasole per scoprirlo.
Il dolore autentico - dice il celebre
romanziere - è un maestro di vita, è un educatore che riesce a rendere
sapiente persino un imbecille. Il suo ardore bruciante è simile a quello
del crogiuolo che riesce a distillare oro da un masso grezzo. A tutti è
accaduto di incontrare una persona, prima fatua e vana, divenuta
totalmente diversa, quasi trasfigurata dopo la tempesta di una
sofferenza personale o della morte di un caro. Il dolore non è, quindi,
solo un mostro che schiaccia e abbrutisce. Un altro scrittore,
l'americano Saul Bellow, osservava che «la sofferenza è forse l'unico
mezzo valido per rompere il sonno della ragione». Dev'essere però un
"dolore vero", vissuto in profondità, non rigettato narcotizzando la
mente e il cuore, ma elaborato, meditato, accolto nell'anima. Certo, la
sofferenza pone altri interrogativi alti, ma questo è già un punto fermo
su cui riflettere.
Gianfranco Ravasi |