Vacanze: passione di ieri e di oggi

 

 

 

Il giorno più bello delle vacanze è l’ultimo giorno di scuola.

Posando a terra lo zainetto, i bambini si sentono veramente più leggeri, liberi dall’impegno quotidiano, dalle lezioni pomeridiane, dalla fatica dell’apprendimento. Respirano a pieni polmoni l’aria tersa, il cielo è più azzurro del solito, anche la natura, con i colori accesi dell’estate, sembra partecipare alla loro gioia.

Con le ali dell’immaginazione, pregustano interminabili giochi con gli amici, scorpacciate di filmine e di letture preferite.

Per me andare in vacanza significava andare in campagna, dai nonni, dove ritrovavo amiche ed amici e quei magnifici spaziosi “cortivi”, dove inventare mille giochi.

Andavamo per i prati a cercare i “panecuc” e coglievamo fiori da portare nella chiesetta del paese.

Imparavamo a conoscere il nome delle piante e a distinguere le bacche velenose da quelle mangerecce; ci piacevano gli amoi ancora acerbi, dal sapore acidulo. Avevamo confidenza con gli animali, ma scansavamo le bisce che facevano ribrezzo.

A volte, andavamo nel torrente a pescare gamberi e a costruire laghetti, sbarrando la corrente con pietre grandi e piccole. Com’ era pulita e limpida l’acqua: si poteva bere tranquillamente, raccogliendola nell’incavo delle mani e poi farla scivolare lungo le braccia, finché restavano poche gocce, come perle iridescenti.

Ci divertivamo anche con poco, con le bolle di sapone, ad esempio.

I rimasugli di sapone venivano messi nei bicchieri, ammorbiditi con l’acqua e sciolti ben bene. Con una cannuccia di paglia bisognava soffiare nell’intruglio finché la schiuma gorgogliando, saliva con molti occhi luminescenti. Allora bisognava scuotere la cannuccia per eliminare il liquido eccessivo e poi soffiare con delicatezza, finché la bolla iniziava a prendere corpo e a ingrandire pian piano.

Era bello vederla volare dall’alto del fienile nell’aria del cortivo e riflettere la sagoma incurvata di una finestra, di una porta, lo sporto del tetto, un battito d’ala.

C’era il tempo per il gioco e il tempo per il lavoro, perché il motto dei grandi era: ”Chi non lavora non mangia”.

Mi rendevo utile aiutando a lavare i panni, badando ai cuginetti e svolgendo altre incombenze.

La fienagione impegnava tutti: chi falciava, chi rastrellava l’erba da sotto i cespugli, chi la sparpagliava, perché seccasse bene.

Nel primo pomeriggio l’erba veniva rivoltata e, di sera, raccolta in lunghe code e ammucchiata in grandi coni: i “marot”.

Il lavoro era faticoso per tutti, la pausa era a mezzogiorno, quando, sul prato, veniva steso un lenzuolo di tela grezza e la nonna vi posava la polenta, ravvolta in una bianca tovaglia. Allora il nonno, aiutandosi con un filo,  praticava sulla tonda polenta tagli orizzontali e verticali e la polenta si apriva, così come un fiore dischiude i suoi petali dorati.

E venivano a banchettare le formiche e qualche innocuo ragnetto terragnolo.

Ai bambini, ai giovani che andranno al mare o in montagna auguro tanti nuovi amici: l’incontro con altre persone, che forse vengono da ambienti e da culture diverse, apre nuovi orizzonti, nuove esperienze e ci arricchisce.

Aiutare in casa, fare qualche lavoretto, occuparci anche per breve tempo di chi ha bisogno, ci fa sentire importanti, ci rende autonomi e ci aiuta a crescere.

Giovanna C.

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