Il mio "Cavallino" ... ovvero il campeggio parrocchiale

Quand'ero giovane, ho abitato in un quartiere di città formatosi nell'immediato dopoguerra, a cinque minuti dal centro: un quartiere diventato in poco tempo molto popolato e popolare. Si erano costruiti palazzoni, ma non si era provveduto alle infrastrutture.

Tra la gente che poco si conosceva e arrivava da tutta Italia, c'era un clima pesante: di difesa, di contrapposizione, di sfiducia.

Il nostro vescovo era il patriarca Roncalli. E' stato lui, sollecitato dal vicario foraneo, a volere lì, al più presto, una parrocchia. C'era bisogno di creare comunità.

Arrivarono tre frati (quelli di S. Girolamo Emiliani del castello di Quero).

Le attività non nascevano che per necessità. Tra le altre, un po' alla volta, era nato il campeggio.

Per alcuni anni si tenne a Falcade alto, e poi (dopo l'alluvione e la tromba d'aria) si trasferì in Val di Fassa.

Tutto veniva seguito nei particolari: scelta della casa, formazione dei volontari, organizzazione della cucina, delle camere, suddivisione degli iscritti per gruppi (ogni gruppo aveva la propria camera e il proprio responsabile).

C'era anche qualche famiglia: anche questa aveva la propria camera. Se non c'era posto sufficiente per tutti i figli, questi si univano ad un gruppo.

Era tutto molto semplice ed essenziale. Il cibo era sano e curato: ogni sera si andava a prendere il latte appena munto, per la colazione del mattino seguente. A tavola, per gli adulti, non mancava il vino, misurato, mai con il "tappo corona".

Ogni gruppo doveva tenere in ordine la propria camera (come poteva); i servizi comuni, (anche la pulizia delle toilettes, venivano fatti a turno.

All'atto della prenotazione     si doveva promettere  di collaborare ai lavori, a mantenere la concordia, ad aderire alle varie attività.   Non sempre era facile, ma a questo tendevamo.

Avevamo la preghiera comune e la messa quotidiana, a cui partecipava qualche adulto e non solo. All'assemblea e alla preghiera era obbligatorio partecipare perché qui si chiarivano le difficoltà man mano che si presentavano e si puntualizzavano le regole.

I volontari non solo pagavano regolarmente la retta come tutti, lavoravano, ma non venivano assolutamente pagati. L'unico salariato era un cuoco. Anche per questo c'era un clima di rispetto e di cordialità.

La giornata era organizzata di volta in volta: c'erano le gite più impegnative, le più corte, i giochi, il calcio, le uscite serali, ecc.

Un giorno il parroco, d'accordo con il sindaco, ci organizzò una visita nella sala del consiglio comunale e ci venne illustrato come si svolgevano le riunioni.

Ogni giorno era un'avventura.

In un turno a cui partecipai c'erano tre fratelli più o meno adolescenti che erano rimasti orfani di madre da pochi giorni. Con molta discrezione il parroco aveva convinto il loro papà a iscriverli al campeggio. Un giorno lo stesso parroco mi sollecitò perché chiedessi loro se avevano calzini da aggiustare. Non ci avevo proprio pensato! Ne avevano... e li vidi sollevati quando li riebbero in ordine. Imparai un po' alla volta che "prossimo" si diventa e ci si matura non solo facendo esperienza in senso lato, ma facendola nell'avere attenzione alle esigenze concrete dei più piccoli, dei più soli.

I turni erano quindicinali, in luglio e agosto: sempre pieni.

E' è stato un modo di riappacificazione sociale e religiosa, i cui frutti si possono ancora vedere.

 Pia

  indietro indice bollettino luglio 2008   avanti pagina 8